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L’era in cui viviamo è definita Antropocene, un’epoca segnata dal prevalente intervento e impatto dell’essere umano (occidentale?) sulla natura, sul paesaggio e sull’equilibrio ambientale in direzione di una riduzione della biodiversità e di una omogeneizzazione dei risultati.
Il verde urbano non si sottrae a queste processo e le aree verdi delle diverse parti del mondo finiscono per assomigliarsi. Come sostengono l’architetto paesaggista Maria Ignatieva e l’ecologa Karin Ahrné, i prati sono l’elemento più influente dell’infrastruttura verde urbana e coprono fino al 70% di tutte le aree verdi dell’ambiente urbano e possono essere trovati quasi ovunque in parchi pubblici, cortili, ambienti di traffico, campi da golf, cimiteri ecc. Quelli che noi consideriamo come una perfetta espressione naturale dello spazio non costruito sono in realtà il risultato di un processo che ha trasformato il prato in un elemento decorativo espungendone il suo significato produttivo fino a farne un elemento di prestigio urbano e sociale. A questo hanno fatto seguito lo sviluppo di un’industria per realizzarli, svilupparli e manutenerli e quindi semi, pesticidi, fertilizzanti, sistemi di irrigazione e tosaerba.
Il significato e l’utilità dei prati nella nostra vita sono indubitabili. Ci sono indispensabili per riequilibrare le impressioni che riceviamo dal costruito consentendoci di “allungare lo sguardo” e hanno anche un ruolo per mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici riducendo le bolle di calore in città e sequestrando C02.
Tuttavia, gestione e manutenzione intensiva dei prati convenzionali, possono avere un forte impatto sull’ambiente. Ad esempio, si stima che negli Stati Uniti vengono impiegati annualmente 60.000 tons di pesticidi e 1,5 trilioni di litri di acqua vengono irrigati sull’erba ogni giorno d’estate.
Il prato è una natura artificiale. Esso può essere un perfetto esempio del cambiamento della relazione tra uomo e natura e del progressivo addomesticamento di quest’ultima.