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In un’intervista apparsa il 2 aprile sul Corriere della Sera, l’arch. Renzo Piano ha affermato: “Soffro al pensiero che tutto quello che ho costruito è vuoto”. Purtroppo, non sono solo gli edifici che portano la sua firma ad avere subito questo destino. Sono vuoti anche tutti gli spazi realizzati per ospitare grandi numeri di persone: fiere, università, musei, stadi, assieme agli uffici di grandi e piccole aziende. Le città oggi sono deserte e potrebbero apparire, a un osservatore alieno, le vestigia di una civiltà scomparsa, come le piramidi egizie o incas. Per questo motivo, anche se il presidente della Triennale di Milano l’arch. Stefano Boeri ci ricorda che “è sempre pericoloso affidarsi eccessivamente alla contemporaneità perché si rischia di annebbiare il nostro sguardo”, avvertiamo la necessità di avere risposta a alcune questioni che bussano alla nostra mente.
Ognuno di noi, infatti, è diviso tra la speranza di tornare alla normalità pre-Covid19 e il timore di futuri scenari apocalittici. In attesa di un vaccino, come potremo raggiungere il luogo di lavoro, lavorare, fare la spesa, studiare, vivere in spazi ristretti, viaggiare, amare, evitando il rischio di infettarsi? Tutto ciò pone domande enormi ai decisori politici. Avrà ancora senso sviluppare il trasporto pubblico e vietare aree della città al traffico privato? L’insegnamento continuerà ad essere frontale oppure dopo questi mesi di insegnamento on-line proseguirà a distanza? Dovremo tornare in ufficio oppure continueremo a lavorare da casa? Nelle fabbriche sarà accelerata l’introduzione della robotica e dell’intelligenza artificiale e molti perderanno il lavoro? E i progetti di cohousing che fine faranno? E i treni e gli aerei? E i musei, lo sport, i concerti, i bar e i ristoranti? Insomma, come vivremo?
Queste domande investono la stessa edizione 2020 della Biennale di Architettura di Venezia, la cui apertura è stata spostata al 29 agosto, intitolata ”How Will We Live Together?”. Un titolo certamente pensato prima dell’emergenza sanitaria e che sottintendeva il riferimento agli aspetti valoriali, sociali, politici della convivenza urbana ma che, per non apparire anacronistico, oggi deve essere inteso alla luce delle regole di distanziamento fisico indispensabili per la nostra sopravvivenza.
In questa necessità di ripensare tutto, delle suggestioni possono giungerci dal lavoro dell’artista italo-belga Lorenzo Gatti, di cui l’8 febbraio era stata inaugurata a Genova, alla galleria SharEvolution di Chiara Pinardi, la mostra “Panoplie” a cura di Viana Conti. La riflessione di Gatti prende le mosse dal concetto e dalla rappresentazione del bunker, inteso però non come struttura militare difensiva o come rifugio blindato, ma come struttura minimale ed essenziale, “grado zero dell’architettura”. I volumi del bunker danno via via luogo a forme ed edifici, non per modifica delle linee esterne ma perché il bunker incorpora, avvolge, fagocita oggetti che ne accrescono la dimensione e la complessità interna. Dopo averli dipinti, con grande precisione sulla tela, Gatti ne realizza uno sviluppo tridimensionale, trasformandoli da luogo chiuso e coerente a luogo aperto, destrutturato, disarticolato, vulnerabile, attraverso un complesso gioco di parti, realizzate in legno e montate tra di loro, come in un Transformer. Il bunker può essere definito anche come il “buco nero ” dell’architettura che al pari del corpo celeste, in cui la forza di gravità domina su qualsiasi altra forza e per il quale è inammissibile che ci sia un passaggio di materia ed energia dall’interno all’esterno, attrae a sé tutte le forme in cui si svolgono le funzioni dell’abitare e del vivere assieme.
A riprova dell’estrema attualità del lavoro di Gatti, che ha fatto di questo tema il leitmotiv della sua produzione artistica, possiamo assumere la rappresentazione che ne troviamo nel film premio Oscar “Parasite”. Il bunker che si trova sotto la villa in cui si svolge la vicenda, costruito per proteggersi dal rischio di una guerra nucleare, assumerà nel film il ruolo di specchio della vita che si svolge nell’abitazione sovrastante e diventerà il “buco nero”, anche etico, in cui saranno attratti man mano i vari protagonisti.
E cosa sono, del resto, oggi le nostre abitazioni? Fortini difensivi dall’infezione esterna ma anche luoghi che ci stiamo accingendo a ripensare sulla base delle nuove esigenze che l’emergenza ci ha imposto, partendo magari da un’imbiancatura, per ingannare il tempo sospeso, ma che potrebbero rivelarsi presto insufficienti per le nuove funzioni che esse dovranno contenere.
La ridefinizione degli edifici pubblici e la loro possibilità di essere nuovamente vissuti, procederà di pari passo con quella delle attività che si svolgeranno tra le mura domestiche. Altrimenti, in un futuro distopico, essi potrebbero trasformarsi in luoghi ripensati per accogliere nuove forme di residenza multifunzionale basate sulla garanzia, reciprocamente controllata, dello stato di salute dei suoi abitanti.
In questo prossimo futuro, che ci coglie impreparati certi come eravamo che nulla di fondamentale sarebbe cambiato, la visione di una società che al pari del “bunker “ fosse capace di recepire e interpretare il mutare delle esigenze di chi ci abita e ci vive, potrebbe essere il giusto modo di reinventare il futuro di del mondo.
Il rischio è quello che gli uomini divengano sempre piu’ isolati lontani a distanza di sicurezza gli uni dagli altri , ognuno nel suo guscio come lumache che si portano la casa addosso, pronti a rientrarvi dentro, e noi mediterranei siamo geneticamente estranei a questo approccio, tanto piu’ ne soffriremmo, quindi aspettiamo fiduciosi un vaccino efficace ed il giorno in cui poterci riabbracciare. Certo ripenseremo necessariamente le abitazioni e gli spazi di lavoro alla luce di questo e futuri scenari simili, magari con spazi vegetali di sopravvivenza all’ interno delle abitazioni private , una vera città vegetale nel senso piu’ esteso del termine, chissà.
Interessante Fabrizio il riferimento a Parasite che giudico un capolavoro assoluto al pari di una tragedia greca, con il bunker /inconscio/ luogo di espiazione dove tutto alla fine si purifica come la neve leggera che cade nelle ultime scene.
Pensare ad un vaccino che scacci questa pandemia? E quando arriverà la prossima aspetteremo un nuovo vaccino e così via? Pensiamo piuttosto ad un modo diverso di gestire questo pianeta. Ciò che stiamo vedendo oggi è il risultato della visione antropocentica. Pensiamoci
Lo spirito di adattamento dell’essere umano rimodula la nostra vita e le nostre esigenze più importanti. In questi tempi di isolamento la socialità viaggia per etere e per cavo usb. Gli assembramenti esistono ma sono un fatto di energia, potenza della rete, che veicola e si concentra in determinati punti fuori dalle nostre case (server). Manca il contatto fisico ma non quello visivo o del poter ascoltare l’altro. Non possiamo ritenerci in assoluto isolati. Certamente per i disagi psicosomatici che questa nuova realtà genera in molti di noi le abitazioni andrebbero ripensate per poter garantire ai propri ospiti uno spazio ottimale e benefico a contatto con la natura che, in stretta simbiosi con gli affetti, può sostenerci e rendere meno difficile la forzata segregazione. Casa =bunker? Non saprei! Ma certamente casa =protezione e massimo conforto psicologico. Il resto, o una parte, lo potremo colmare con la tecnologia.
Comprendo le sofferenze dell’architetto per la sua creatura rimasta senza vita, l’ospite è la sua linfa vitale. Quale padre vorrebbe vedere il figlio svuotato del piacere di vivere.
E’ interessante la considerazione/definizione del bunker quale buco nero dell’architettura e la visione del bunker stesso espressa dall’artista Gatti.