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La mostra “Georges de La Tour l’Europa della Luce”, in corso al Palazzo Reale di Milano, ha avuto uno svolgimento singolare. La curatrice Francesca Cappelletti, in una bella intervista, del 20 febbraio scorso, al podcast “Il posto delle parole”, raccontava che inizialmente, si era pensato di chiamare la mostra “L’Europa delle Tenebre”, riferendosi alla consuetudine del pittore e di altri artisti suoi contemporanei, di dipingere scene ambientate in interni poco illuminati. Solo successivamente si era preferito optare per “l’Europa della luce”, privilegiando il richiamo al chiarore fornito dalle candele che rischiarano le scene dei quadri. Purtroppo la mostra, che avrebbe dovuto restare aperta dal 7 febbraio al 7 luglio di quest’anno, è stata chiusa a causa dell’emergenza sanitaria, divenendo una delle mostre simbolo della situazione “dell’Europa del Covid”.
Riaperta il 28 maggio, l’esposizione deve sottostare alle disposizioni imposte per la riapertura delle strutture museali nella Fase2. Ingresso solo con prenotazione e preacquisto del biglietto; arrivo in mostra non prima di cinque minuti del proprio orario d’ingresso stabilito; essere dotati di mascherina; verifica della temperatura e pulizia delle mani; sospensione del servizio di guardaroba; distanziamento di almeno un metro dalle altre persone; obbligo di seguire i percorsi indicati senza poter tornare indietro.
Desideroso di visitare la mostra ho prenotato per sabato 30 maggio alle 14. Il racconto della mia esperienza di visita deve tener conto di quanto segue. La prenotazione con l’app Vivaticket alla quale per fortuna ero già registrato, è stata un po’ lunga perché nel frattempo mi sono state richieste nuove informazioni. L’audioguida compresa nel biglietto d’ingresso e scaricabile dal 30 maggio era purtroppo disponibile solo per iphone e l’infoline di Vivaticket non funziona al sabato e domenica. Dopo la misurazione della temperatura, una volta varcata la soglia di ingresso, sono entrato in una reception vuota e disadorna che comunicava una sensazione desolante e insolita. Il custode che ha registrato il mio biglietto di ingresso mi ha avvisato che se dovevo andare in bagno, dovevo approfittare subito dei servizi, perché poi non avrei potuto tornare indietro né rientrare. In compenso ero l’unico visitatore e solo dopo una mezz’ora sono stato raggiunto (a debita distanza naturalmente) da un altro.
La mostra mi è piaciuta ma è stata inevitabilmente influenzata da quanto descritto. La mia esperienza è emblematica della situazione delle mostre e dei musei italiani, che certamente durerà a lungo e che sta provocando un vivace dibattito con proposte contraddittorie. Il critico e curatore Vincenzo Trione, ha sostenuto, sulla Lettura, che le regole di distanziamento e lo stop ai flussi turistici metteranno un forte freno alle mostre cosiddette “blockbuster” ma che avremo mostre più ragionate, pacchetti non più prefabbricati, un nuovo ruolo delle amministrazioni pubbliche, in sintesi “una rinnovata dignità culturale” ma probabilmente, aggiungo io, casse vuote. Al contempo, sempre secondo Trione, occorre giustamente aiutare tutto il mondo che ruota attorno all’arte della pittura e scultura, rappresentato dagli “artigiani dell’arte”, con defiscalizzazioni e agevolazioni. Inoltre, lo sforzo dei musei di recuperare il tempo perduto nella messa a disposizione online dei propri contenuti dovrebbe essere rivolto in altra direzione. Essi dovrebbero spingersi all’esterno e andare verso la public art (cioè collocata su suoli pubblici esterni) che è però per sua natura libera e gratuita, dato che per “incontrarla, non bisogna pagare nessun biglietto”. Io però mi chiedo: chi pagherà tutto questo?
Sull’altro versante, il critico Luca Beatrice, nella sua video rubrica “Da che arte stai?” afferma “Basta alla cultura gratis”, mentre un piccolo festival letterario come “La grande invasione”, andato in programma on-line, ha chiesto il pagamento di 5 euro anche se da devolversi in beneficenza.
Ora, chi scrive è convinto che certamente la “public art”, intesa però come monumenti pubblici, avrà un suo ritorno, dopo anni di assenza dovuti alla crisi delle finanze degli enti locali. Lo esigono le vittime e gli eroi dei Covid e la memoria di ciò che abbiamo vissuto e che speriamo di non dover rivivere, ma perché, al tempo stesso, la pittura e la scultura, e le istituzioni che le ospitano non dovrebbero tentare quanto viene sperimentato ad esempio nell’ambito della musica? Senza voler considerare gli eventi organizzati con la presenza di alcune star del pop mondiale, mi limito a citare il concerto di Paolo Fresu tenutosi al Blue Note di Milano l’8 maggio, trasmesso gratuitamente sulla piattaforma Huawei e seguito da 110.000 persone in dodici paesi. Il concerto era gratuito per tutti ma in parte riservato agli utenti Huawei. Se però si scorrono i commenti sulla pagina Facebook del locale, si leggerà che molti ascoltatori avrebbero preferito pagare pur di poter assistere a tutto il concerto senza le limitazioni imposte dallo sponsor.
Siamo quindi sicuri che per la pittura e la scultura non sia possibile creare eventi con un pubblico mondiale on line disponibile a pagare per assistere, ad esempio, all’arrivo di una nuova opera? Oppure al restauro e al ritorno di una già presente che viene rimessa in esposizione? O a una nuova scoperta archeologica? Certo, è necessario un enorme lavoro di riconversione di mezzi e persone ma, se si vogliono far quadrare i conti, sarà inevitabile spingersi su nuovi terreni di fruizione dell’arte.
L’esperienza di una visita di una mostra in solitaria appare desolante, anche se molto frequente nelle centinaia di musei sparsi per l’Italia che ricevono pochissime visite anche in tempi lontani dalla pandemia. E rimane per me la necessità di rendere tutti consapevoli del piacere e dei benefici fusici e psichici generati dalla fruizione dell’arte esposta nei luoghi giusti, o nei siti web ben costruiti . Tutto ciò ha dei costi che vanno sostenuti e non possiamo essere disposti a spendere solo per gratificare i nostri sensi con l’arte della cucina e della degustazione!