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Bruno Liberatore (Penne-1947) è uno dei più importanti scultori italiani. La sua bibliografia e l’elenco delle mostre personali e collettive a cui ha partecipato riempiono tantissime pagine in corpo otto e sui di lui hanno scritto i più importanti critici come, solo per citarne alcuni: Enrico Crispolti, Furio Colombo e Gillo Dorfles. L’ho incontrato per la prima volta a Roma nel suo studio, pochi giorni fa e anche se proveniamo dallo stesso paese, non l’avevo mai conosciuto personalmente, a causa forse della differenza di età (io sono del 1955) e del fatto che vivevamo in quartieri diversi, lui a San Comizio, io alla Madonna della Libera, che da ragazzo mi sembravano separati da distanze enormi. Certo ricordavo bene il suo profilo magro, il viso allungato e le sue sopracciglia foltissime, sotto cui si aprivano degli occhi azzurro chiaro che creavano un contrasto singolare e avevo visto l’unica mostra che era stata organizzata per lui dal Comune di Penne nel 1987, in cui emergeva già il tema della natura e delle montagne.
Parlare di uno scultore con un curriculum come quello di Liberatore non è facile, ma ti consente di poter leggere molto e di imbatterti in particolari su cui puoi interrogarti e fare domande. Il primo argomento è l’opinione comune, affermata per primo da Enrico Crispolti, che Liberatore nelle sue opere abbia rappresentato, emulato la natura e che i suoi soggetti siano lo sviluppo di immagini e ricordi del suo territorio, come le montagne del massiccio del Gran Sasso che si ergono alle spalle di Penne. Queste avrebbero impressionato la sua memoria giovanile e sarebbero riemerse poi nell’età adulta per divenire soggetto delle sue opere. Ma, si è chiesto giustamente Michail Kuzmin nel suo saggio dedicato alla grande esposizione delle opere di Liberatore all’Ermitage di San Pietroburgo del 2007, questo non spiega “quali siano queste impressioni, e perché sembrano tanto importanti per Liberatore”. Non spiega, inoltre, aggiungo io, perché le sue prime opere rappresentino muri, porte e facciate e che la più nota di queste si intitoli “Malattia di un muro” (1974-1976) e perché solo dopo egli si sia dedicato a rappresentazioni “ardite” della natura.
Facciamo un passo avanti per poi tornare indietro. Liberatore verso la fine della nostra chiacchierata mi racconta di aver vinto il suo primo premio “da ragazzo” con un disegno a carboncino che si intitolava “Dopo la catastrofe” che un suo professore di allora, Vittoriano Napoletano, aveva inviato a una mostra. Ancora adesso, mi dice, non sa spiegarsi il perché di quel titolo e di quel disegno, “perché io ho avuto sempre questo tema senza averlo mai vissuto”, perché possedeva quella che io chiamerei “un’inquietudine ambientale”.
Credo sia stata questa sua sensibilità a restare impressionata sia dalle baracche della periferia romana che si vedevano dal treno nei suoi viaggi da Penne a Roma negli anni Sessanta, dove frequentava l’Accademia di Belle Arti, sia dalla differenza tra le immagini nitide e perfette dei monumenti della Roma antica che aveva visto sui libri di storia dell’arte e la realtà di decadenza o comunque di incompletezza in cui essi versavano. È questa la materia che incide, ferisce quasi, la sua sensibilità ambientale e che gli fa dire, come ha ribadito in un’intervista rilasciata in occasione della sua mostra ai Mercati di Traiano, nel 2015, che lui si è sempre occupato dell’ambiente.
Potremmo dire allora che è la “crisi del paesaggio urbano”, vista anche come crisi delle forme geometriche impiegate per costruirlo, ben rappresentata io credo, dalla sua opera “Crisi di una piramide” (1987-1988) che lo spinge a tornare alla rappresentazione della Natura, della T/terra. Ed è in questa fase che sicuramente tornano alla mente le immagini dell’infanzia, delle montagne che svettano, prima in forma netta, pulita, levigata come nei vari “Paesaggi” e poi man mano sempre più contrastate, sbilenche, perché l’ascensione è frutto di forze naturali che si scontrano e che torcono queste strutture su cui si aprono crepe, ferite, squame, espressione del senso della malattia, della sofferenza della T/terra come ad esempio in “Grembo”, “Citta terrestre e città celeste”, “Slancio Vitale”, “Assalto all’Olimpo”.
In conclusione, l’opera di Liberatore può apparire come lo sviluppo di quella inquietudine ambientale di cui parlavo sopra e che lui stesso ha sintetizzato con queste parole: “La terra è la materia più interessante con cui abbiamo a che fare. Essa ci appare ora sofferente, ora infuriata, ora rinascente. Io cerco di esprimere questi stati della natura”.
Abstract
Bruno Liberatore (Penne-1947) is one of the most important Italian sculptors. I met him for the first time in Rome in his studio, a few days ago, because even though we come from the same village, I had never met him personally, perhaps due to the age difference (I’m from 1955) and who lived in different neighborhoods, he at San Comizio, I at the Madonna della Libera, which as boy seemed to me separated by enormous distances. In this post I try to outline the “environmental concern” that underlies all of his work and which he himself summarized with these words: “The earth is the most interesting matter we deal with. It appears to us now suffering, now angry, now reborn. I try to express these phases of nature”.