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Al PAC di Milano, subito prima della ennesima chiusura temporanea, sono riuscito a visitare la sala dedicata a Zehra Dogan, la giovane artista curda di cui sono esposte una serie di opere realizzate durante la detenzione nelle carceri turche, allestita in contemporanea con l’esposizione, ben più ampia, dedicata all’artista e fotografa Luisa Lambri. Questo accostamento la rende ancora più notevole perché, passare dalle sale ampie e luminose, in cui sono esposte le foto dedicate ai giochi di luce sui dettagli di edifici e opere d’arte della Lambri, allo spazio piuttosto raccolto e poco illuminato dello spazio dedicato alla Dogan, ci fa percepire le differenze che continuano ad esistere quando parliamo di ambiente e degli effetti del cambiamento climatico tra chi ha di più e chi ha meno. In particolare, in questo caso, ci rendiamo conto che se tutti viviamo in un mondo con gravi problemi ambientali, degli esseri umani, in particolare i detenuti, in alcuni paesi vivono una condizione ancora peggiore. Per questo motivo torno ad affrontare il problema di cui avevo scritto già ad aprile dello scorso anno.
Zehra Dogan (Diyarbakir, Turchia, 1989) giornalista, artista, attivista politica e femminista, ha raggiunto in poco tempo una notorietà internazionale a causa delle vicende in cui ha deciso di coinvolgere la propria vita. Laureata in Belle Arti alla Dicle University di Diyarbakir è cofondatrice della prima agenzia d’informazione femminile Jinha con cui ha realizzato, tra l’altro, il servizio sulle donne Yazide impiegate come schiave sessuali dagli uomini dell’Isis. Impegnata a documentare gli effetti degli scontri tra le forze militari turche contro i curdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), nel 2016 viene arrestata con l’accusa di propaganda terroristica e dopo cinque mesi di carcerazione preventiva, a marzo del 2017, viene condannata a due anni, nove mesi e ventidue giorni di prigione. Detenuta prima nel carcere di Diyarbakir e poi in quello di massima sicurezza di Tarso, verrà rilasciata nel febbraio del 2019 anche per merito di una campagna internazionale da parte di artisti che si mobilitano in suo favore.
Il ciclo esposto al PAC di Milano, Il tempo delle farfalle, comprende alcune opere realizzate durante la prigionia con i mezzi disponibili in carcere e fatte uscire clandestinamente. I supporti sono i più diversi, asciugamani della prigione, carta di giornale o la stagnola dei pacchetti di sigarette. Per i colori Zehra Dogan ha fatto ricorso a tutto ciò che poteva imprimere una traccia, oltre a penne a sfera, avanzi di cibo, sangue mestruale (anche delle altre prigioniere), tè e fondi di caffè e fili per ricamo. Il titolo è una dedica esplicita alle sorelle Patria, Minerva e Teresa Mirabal, conosciute anche con il nome in codice Mariposas (farfalle per l’appunto), ispiratrici del movimento politico 14 giugno con cui portarono avanti la lotta contro il regime di Rafael Trujillo (1891-1961), dittatore della Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961. Dopo essere state imprigionate assieme a loro mariti, esse furono rilasciate, ma il 25 novembre del 1960, mentre si recavano a fare loro visita ai coniugi ancora incarcerati, la loro auto fu intercettata e costrette a scendere furono massacrate a bastonate. I loro corpi furono rimessi nell’auto che fu poi fatta precipitare in un dirupo per simulare un incidente. La data della loro morte, celebrata dal movimento femminista, fu poi adottata dalla Assemblea delle Nazioni Unite per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Alcune delle opere esposte sono visibili nella galleria al piede dell’articolo. I soggetti sono ricordi delle atrocità della guerra, come nel caso di Mugdat Ay, che immortala su un asciugamano con penna a sfera e tè il ricordo di un ragazzino di dodici anni ucciso a Nusaybin, mentre stringe ancora nelle sue mani le biglie con cui stava giocando oppure risultato dell’attività onirica come per Donne Uccello, realizzato con penna a sfera su tessuto o la tradizionale Mano di Fatima, simbolo ricorrente nell’iconografia musulmana o ebraica, utilizzata come amuleto portafortuna, in cui sono stati impiegati ricamo, tè, caffè e penna a sfera su una federa.
Dopo essere uscita dal carcere, Zhera Dogan ha intrapreso una attività di continua testimonianza della situazione del popolo curdo e delle minacce alle libertà civili in Turchia che può certamente essere definita come militante: “Sono castigata per ciò che disegno. Sono convinta di poter cambiare le cose con il mio disegno” ha affermato. In Italia, il 23 novembre 2019 ha realizzato al Museo di Santa Giulia a Brescia, la performance in memoria di Hevrin Khalaf (1984-2019) una politica curda con cittadinanza siriana uccisa durante una operazione militare turca e il 2 agosto 2020 ha partecipato al concerto per la Siria diretto da Riccardo Muti a Paestum.
Oltre a parlarci degli orrori della guerra e dei diritti delle donne, il lavoro di Zhera Dogan ci riporta alla realtà del carcere. Durante la pandemia, essendo le carceri uno dei potenziali focolai di contagio, per ridurre al minimo i rischi, oltre ad aver favorito modalità alternative per l’esecuzione della pena, sono state però sospese oltre alle visite anche lo svolgimento delle iniziative formative, lavorative e ricreative. Ora che il vaccino è disponibile quando saranno vaccinati i poco più che 53mila detenuti? Il commissario Arcuri aveva parlato dei reclusi come uno dei settori da privilegiare dopo gli over 80 ma non è noto se la sua sostituzione porterà a dei cambiamenti. Vaccinarli sarebbe una scelta di buonsenso, aiuterebbe a superare il terrore che prova chi è costretto a vivere assieme ad altri, in un luogo da cui non si può uscire ma in cui il virus può entrare e aiuterebbe a far ripartire tutte le iniziative necessarie per dare dignità alla detenzione e alla pena.
Abstract
Zehra Dogan (born 1989 in Diyarbakir, Turkey) is a Kurdish journalist, artist, political activist and feminist. Arrested on charges of terrorist propaganda in March 2017, she was sentenced to two years, nine months and twenty-two days in prison. The cycle exhibited at the PAC in Milan, The Time of the Butterflies, includes some works made during imprisonment with prison towels, newspaper paper or foil packets of cigarettes and for colors leftover food, menstrual blood, tea, coffee grounds and embroidery threads. The title is a dedication to the Mirabal sisters, also known by the codename Mariposas (butterflies), killed for their fight against the regime of Rafael Trujillo (1891-1961), dictator of the Dominican Republic from 1930 to 1961.
Articolo, come del resto tutto il blog, straordinario dal punto di vista culturale.
Gentile Massimiliano, i complimenti fanno sempre piacere. Ti ringrazio