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Consiglio la lettura del bel libro di Niccolò Reverdini (Milano, 1965), Anche l’usignolo – vita di città, di bosco e di campagna (Mondadori-2021) un romanzo-saggio, o viceversa (decida il lettore come definirlo) dedicato alla sua esperienza di imprenditore agricolo sui terreni di famiglia alle porte di Milano. Avevo conosciuto l’autore attraverso la mia collaborazione con l’associazione a cui aderisce e sapevo che era pronipote dello scrittore e diplomatico Carlo Pisani Dossi (1849-1910); che era stato allievo del critico letterario Dante Isella e che aveva una profonda passione e conoscenza dei classici greci e latini, nonché della letteratura lombarda, di cui troverete ampia evidenza nel suo racconto. Ma il volume è a mio avviso importante perché rappresenta una testimonianza, sentita e appassionata, delle trasformazioni intercorse, nel giro di appena trent’anni, nelle campagne attorno a Milano e a tutte le altre grandi città, in quella che si definisce agricoltura periurbana. Un ambiente costituito da elementi naturali come la terra, il bosco, gli animali ma anche da persone, linguaggi e storie che Reverdini descrive con grande capacità.
La trama si dipana attorno alla figura del nonno di Niccolò, Franco, figlio dell’artista esponente della scapigliatura milanese e al Bosco di Riazzolo, da lui acquistato nel 1936, assieme ai terreni e agli edifici che formano l’attuale Cascina Forestina, per sottrarlo alla furia estirpatrice del coltivatore fascista che voleva ricavarne terreni da destinare alla battaglia del grano, motivazione che egli stesso volle includere nella lapide che lo ricorda nel bosco. Il nonno, che “amò la natura con tutto il suo essere che sentiva fondersi in lei”, protesse “i tesori delle fonti e della fauna sempre più insidiati dagli uomini…” e lungimirante nel conservare una selvatichezza del paesaggio, sarà la presenza che con il suo esempio insegnerà al nipote ad amarla. Nel bosco egli troverà rifugio e riparo tutte le volte che sentirà il bisogno di un luogo protetto.
Quando nel 1996 decide di trasferirsi da Milano nella proprietà e di diventare imprenditore agricolo, la memoria del nonno, morto nel 1968, e il suo mondo, sono ancora ben presenti attraverso le persone, alcune delle quali memorabili, che lo avevano conosciuto: Carla, nipote del primo guardiacaccia dell’avo, che non disprezzava di esibire la carabina contro i malintenzionati ma “malvolentieri sgozzava i polli sull’acquaio” e che, una volta trovata morta sul letto, lui avrebbe voluto far volare verso il bosco. Antonio, El Togn, definito “uomo di bosco e di riviera” che appena poteva scappava verso il fiume Ticino. O il Carlone che, dopo l’8 settembre, si era rifugiato in campagna “nel folto o nelle tombe dei fontanili”, per sfuggire alle retate e nell’estate del 1944, non aveva esitato ad affrontare, assieme al cognato, due barba (briganti) comparsi nella corte con l’intenzione di rubare degli animali, uccidendo uno dei due, di cui solo dopo scoprirà la vera identità. Assieme a questi anche Gino e Lino, meno caratteristici ma dotati delle solide conoscenze che gli consentiranno di portare avanti l’impresa.
Essere il discendente dell’antico proprietario non è però sufficiente per essere riconosciuto e accettato. Perché ciò avvenga dovrà compiere un viaggio iniziatico, in cui giocherà un ruolo fondamentale la parola, che lo aiuterà, fin dall’esordio della sua esperienza e del suo rapporto con tutti loro, non tacendo le paure e l’ignoranza di un lavoro che non ha mai fatto, perché, mi dice, “la parola è un affidarsi”. Molto importante nel riconoscimento della serietà dei suoi propositi sarà la comprensione del dialetto che gli consentirà di creare l’intimità necessaria e di poter sedere, senza imbarazzo alla loro stessa tavola. Assieme alla parola saranno la sua caparbietà e il suo impegno nella sperimentazione del metodo biologico, nella ricerca delle soluzioni sostenibili per poter contrastare gli infestanti e i parassiti che attaccano le coltivazioni non difese dalla chimica, nell’inserimento di specie vegetali e animali antiche e nella ricerca degli sbocchi commerciali a valergli l’appoggio e il sostegno dei collaboratori perché “nulla senza chinarti puoi qui comprendere o saggiare”.
Ma le compatibilità economiche e la volontà di non rinunciare al suo sogno gli impongono di avviare l’azienda ricettiva e la trasformazione, nel 2004, dell’antica stalla in un ristorante e poi di destinare, nel 2005, la Casetta dei Salariati alla realizzazione di otto camere con bagno e poi di aggiungere sale per riunioni aziendali. Certamente esiste un mercato per tutto ciò: i cantieri per le nuove strutture commerciali e logistiche che iniziano a congestionare il territorio portano le ditte edili; la presenza di un reticolo di aziende nell’area fa affluire i rappresentanti e i viaggiatori di commercio mentre il bisogno di ritemprarsi nella natura rende attraente il bosco per le società di formazione che vogliono mettere alla prova i manager, ma tutto ciò impone un cambiamento dei ritmi. Ci si alza prestissimo ma non per recarsi nei campi ma per servire le colazioni alle squadre che devono iniziare per prime a lavorare e poi man mano agli altri clienti che hanno orari diversi. E poi occorre fare attenzione a riscuotere i pagamenti perché non tutte le aziende sono puntuali allo stesso modo e le imprese possono essere “avidissime”. Certo a tutti spiega i metodi di coltivazione dei prodotti che consumeranno ma il ritmo è sempre più intenso anche se punteggiato da momenti di grande piacere, come la visita dell’artista Federica Galli, di cui ho già parlato in un’altra occasione che, dopo aver realizzato 33 incisioni nel bosco tra il 1977 e il 1982, vi torna nel 2006 per realizzarne delle altre che donerà alla Forestina e di cui lui ricorderà “le mani tiepide”, nonostante lavorasse all’aperto al freddo.
Eppure, anche in questa trasformazione del lavoro, l’autore vede l’opportunità di far sopravvivere una delle finalità delle cascine lombarde che: “avevo sempre pensato assomigliassero ai porti del mare…( le cui) corti si aprivano ai poveri, ai deboli, gli oppressi, a chi recava ferite nell’anima e nel corpo (e poi) ai lunatici e agli svitati e ai bizzarri… Chi stava ai margini entrava nella vita: sedeva a tavola, nella comunità”. E saranno le nuove esigenze aziendali a dargli la possibilità di far rinascere questa vocazione, sperimentando l’avvio al lavoro di giovani uomini e donne arrivati in Italia con terribili percorsi di emigrazione,
Si spiega così il titolo del volume perché Anche l’usignolo, che ha sedotto i poeti da Petrarca in poi, compie assieme ai suoi compagni lo stesso viaggio di tanti migranti, un volo irto di pericoli in cui non tutti arrivano a destinazione. “Quel rosignuol, che si soave piagne forse suoi figli o sua cara consorte, di dolcezza empie il ciel et le campagne con tante note si pietose et scorte, et tutta notte par che m’accompagne…” (F. Petrarca, Canzoniere, citato nel testo).
Abstract
I recommend reading the beautiful book by Niccolò Reverdini (Milan, 1965), Anche l’usignolo – vita di città, di bosco e di campagna (Mondadori-2021) dedicated to his experience as an agricultural entrepreneur on family land just outside Milan. A volume that I think is important because it is a heartfelt and passionate testimony to the transformations that occurred, in just thirty years, in the countryside around Milan and all the other big cities, in what is called peri-urban agriculture. An environment consisting of natural elements such as land, forest, animals but also people, languages and stories that Reverdini describes with great ability.
Un commento su “Anche l’usignolo sa che la nostra vita e le campagne sono cambiate”