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Si è svolta a Milano, nello studio museo Francesco Messina, nell’ambito delle manifestazioni del Fuori Salone, l’edizione 2021 di Terra Migaki Design, la manifestazione che promuove la realizzazione di edifici, finiture e oggetti in terra cruda, coordinata dall’arch. Sergio Sabbadini, di cui avevo parlato lo scorso anno. L’edizione di quest’anno, denominata con il termine giapponese Sozai (materie prime), era dedicata al tema del design sostenibile. L’evento comprendeva anche alcune installazioni artistiche, tra cui l’opera di Cristina Volpi (Saronno, 1975) Terra Àncora, terra ancora, che rappresenta un punto di svolta nella sua produzione. Lo spazio espositivo, ospitato nella chiesa sconsacrata di San Sisto al Carrobbio, si presta particolarmente, con i suoi diversi livelli (la cripta, la navata e la volta), per gli interventi della Volpi che lo sente come luogo dell’anima, della coscienza, dell’inconscio e dell’ultraterreno ma anche della consapevolezza del sé.
La descrizione dell’opera e le foto non rendono giustizia all’impressione che ho provato quando ho potuto ammirarla nel corso della serata inaugurale. In basso nella cripta, osservabile affacciandosi dalla balaustra della navata, giaceva illuminata da un cono di luce, su un fondale di terre di diverso colore provenienti da diverse aree del mondo e differenti regioni d’Italia distribuite in modo da creare intensi effetti cromatici, un’àncora parzialmente immersa in un cumulo di terra più alto su cui era riuscita a fermarsi. Essa era legata a una cima in tensione che si alzava verso la volta della chiesa per girare poi attorno a una delle aste in ferro che vanno da un lato all’altro dell’edificio, individuata come puleggia ma in realtà punto di equilibrio tra le parti della fune che ripartiva poi verso il pavimento della navata, dove l’altro capo era legato a un blocco di terra cruda delimitato da un cerchio disegnato con delle polveri. La scena era delimitata e suggestivamente raccolta da un’altra opera realizzata con una serie di teli in sacchi di juta riciclata colorati con polveri di terre minerali da Sergio Sabbadini, Marta Oberle e Hyejin Kim.
L’àncora posta da Cristina Volpi al centro della scena è un potente simbolo, per i suoi molteplici significati, della nostra situazione. L’opera, il cui seme era stato buttato prima della pandemia, è in primo luogo ancoraggio per l’artista dopo un anno di solitudine, abbandoni, perdite ma anche un invito per tutti noi a trovare un punto a cui aggrapparsi. Strumento che serve a tenere ferma la nave alla fonda, essa era già impiegata nell’iconografia cristiana, citata da San Paolo nella sua lettera agli Ebrei per indicare il punto fermo della speranza rappresentata dal Gesù ed è tornata drammaticamente di attualità nel momento in cui barche colme di persone cercano un punto di approdo. Essa include un messaggio di speranza perché buttare l’àncora per fermarsi prelude al momento in cui essa sarà tirata su per una nuova ripartenza e un nuovo viaggio. Metaforicamente, inoltre, l’àncora può essere interpretata anche come il peso di un accaduto della nostra vita che, nel momento in cui ci porta a toccare il fondo, bloccandoci e ancorandola a questo evento ci costringe anche a riflettere attorno a quanto avvenuto.
Ma se la cima, la grippia a cui è legata l’àncora, sale verso la navata che potrebbe essere vista come la carena rovesciata di una nave, essa poi punta di nuovo verso il basso legandosi ad un altro punto fermo, ad un’altra àncora seppur rudimentale come quelle che possono essere impiegate nelle campagne per tenere fermo un animale o anche in mare in mancanza di un vero attrezzo. Ma allora la cima, il filo teso rappresenta sia un mezzo di equilibrio ma anche un mezzo di comunicazione tra due mondi, la terra e il mare, perché come proposto dal titolo dell’opera, l’ancoraggio serve per giungere sulla terraferma e quindi per muoversi ancora nel mondo. Àncora e ancora sono parole omografe, sdrucciola la prima, piana la seconda, sostantivo la prima, avverbio di tempo la seconda ma che esprimono due momenti della vita; quello in cui ci si ferma e quello in cui si riparte, o si protrae o si ripete un’azione o un comportamento nel tempo, in modo fisiologico o patologico. Ma la cima mette in contatto anche altre dimensioni che corrono lungo il filo, la libertà e il dovere, la fluidità e la concretezza, il femminile e il maschile. Eppure, sembra quasi di poter percepire nella seconda parte del titolo, nell’ancora terra, non solo una speranza ma anche una stanchezza, un non poter venire meno alla nostra umanità, al mito di Sisifo che siamo costretti a rivivere ogni giorno.
Sembra quindi di ritrovare alcuni dei temi che Cristina Volpi affronta da sempre con quella tenacia che la contraddistingue e che l’ha portata a fare arte “a causa del rifiuto delle cose che avrebbe voluto fare”, senza essere partita da una formazione specifica, licenziandosi da un lavoro per frequentare l’Accademia di Brera e costruire la sua carriera di artista. L’arte è per lei sacrificio, ricerca, volontà, concentrati attorno ai temi della sua esperienza di vita, della memoria, dell’equilibrio, della condizione femminile, collegati alle figure della sua famiglia, la madre e le nonne. Arte che Cristina Volpi vede legata al mondo dell’inconscio, al rito e al mito, ai sogni che l’hanno accompagnata nella realizzazione di questo lavoro e che l’hanno aiutata a superare i timori connessi alla sua novità, alla magia della percezione infantile della realtà, allo yoga.
A questi temi si lega un’altra opera con cui Cristina Volpi è stata presente a questa rassegna, allestita al secondo piano del museo e denominata La stanza di Penelope, in cui sono stati raccolti oggetti e attrezzi dedicati al cucito, arte magica, presente nei miti e nelle fiabe, già praticata dalla nonna. Come dice lei stessa nella presentazione “La cucitrice e la sarta sono incarnazioni psichiche dell’umiltà eroica, della cura per i dettagli e la ripetizione”. Del resto, parlare di Penelope vuol dire parlare di Ulisse e del suo viaggio in cui l’àncora viene calata e levata più volte in attesa dell’approdo finale sempre rinviato.
L’equilibrio che Cristina Volpi cerca di stabilire tra le due àncore e idealmente tra il mare e la terra deve però a volte fare i conti con l’irreversibilità dei processi. Come quando, mentre posava con un setaccio le polveri di terra sul fondo della cripta, come in una danza, partendo dall’estremità opposta all’àncora per avvicinarsi poi a questa, si è resa conto che non sarebbe stato possibile tornare indietro a correggere l’effetto che si era creato. In alcuni casi è impossibile ripercorrere la strada a ritroso, possiamo solo buttare l’àncora, toccare il fondo per scoprirci e ripartire ancora.
Abstract
Cristina Volpi (Saronno, 1975) presented as part of the exhibition Terra Migaki Design, held in Milan in the studio museum Francesco Messina, his installation Terra Àncora, earth again, which represents a turning point in his production. The exhibition space, housed in the deconsecrated church of San Sisto al Carrobbio, is particularly suitable, with its different levels (the crypt, the nave and the vault), for her installations who feels it as a place of the soul, of consciousness, of the unconscious and of the afterlife but also of self-awareness.