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I versi del poeta americano Walt Whitman (1819-1892): “Credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle”, descrivono perfettamente il senso delle opere di Paola Marzoli (Lecco 1944), presentate nella mostra Ogni erba ha un nome, in corso alla Galleria Rubin di Milano, fino al 27 novembre. Si tratta di un’artista che assomma in sé tre personalità, quella di architetto, di psicoterapeuta e di pittrice e che ha portato avanti una lunga ricerca individuale, culminata nell’approdo alla religione nei primi anni di questo secolo e di cui i quadri esposti sono una raffigurazione.
La descrizione che Mario De Micheli diede della sua pittura ma anche della pittrice, nel catalogo della mostra svoltasi nel 1978 al Museu de arte di San Paulo (Brasile) come “sottile, inquieta, intellettuale”, credo sia ancora valida, anche se la sua cifra poetica era del tutto diversa seppur già allora inserita nel medesimo progetto di ricerca. Allieva di Aldo Rossi, si avvicina alla psicoterapia di Silvia Montefoschi e da metà degli anni Ottanta è psicoterapeuta. Due figure di riferimento per la sua formazione ma, come dirà nel catalogo della mostra Appunti di viaggio del 2005 dove presenta la sua svolta religiosa, “per me, la forma dell’architettura era troppo forte. I muri mi facevano male. Così mi era troppo pesante, come una gabbia, il pensiero (alla fine hegeliano) di Montefoschi”.
Attraverso il suo sito web e la cronologia delle sue opere, tutte rigorosamente numerate, è possibile seguire l’evoluzione del suo pensiero e della sua poetica in modo del tutto trasparente. L’autrice non dissemina tracce o briciole di pensiero ma illustra chiaramente ed esplicitamente i passaggi attraversati dalla sua pittura: dagli spazi rinascimentali alle piazze metafisiche e ai templi greci, anche se ingabbiati nelle impalcature necessarie per il loro restauro, badando al dettaglio delle colonne scanalate, per lei mirabile esempio di tecnica.
Fino al 2004, quando nel suo viaggio annuale sulle tracce dei miti che alimentano la nostra cultura occidentale, giunge in Palestina. Qui, nell’ Orto dei Getsemani, in mezzo a quegli ulivi millenari, nel luogo in cui si svolse, secondo i Vangeli la tragedia in cui siamo ancora coinvolti, dell’accettazione del destino mortale di Cristo e il suo arresto, provocato dal tradimento di Giuda, la sua ricerca ha un punto di arrivo perché: “sulle tracce dell’uomo artefice giunto alla perfezione della colonna scanalata, accarezzando la corteccia di un ulivo ho toccato la perfezione del Padre”. Impossibile certo poter descrivere cosa sia accaduto al di là delle sue stesse parole, ma è possibile dire a cosa sia corrisposto da un punto di vista artistico. Se, fino ad allora, la Marzoli aveva osservato il paesaggio nel suo essere costruzione umana razionale fatta di edifici, piazze e templi con sguardo conoscente che cioè vuole rendere il mondo oggetto, rex extensa conoscibile, assumendo l’uomo come misura di tutte le cose, lì, nel giardino degli ulivi, il suo occhio si sposta sulla natura da cui si fa investire, divenendo soggetto riconoscente che legge nel mondo una realtà trascendente l’essere umano ma che ringrazia il principio dello stesso. Si può paragonare quanto vissuto dalla nostra, alle sensazioni raccontate da Caspar David Friedrich e dai pittori romantici che vedono nella natura la manifestazione del sacro o come scriveva il filosofo Ralph Waldo Emerson: “In piedi sulla nuda terra, il capo sferzato dall’aria tersa, teso verso l’infinito dello spazio, ogni vile egotismo scompare. Divento un trasparente bulbo oculare; io sono nulla; io vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale circolano attorno a me; sono una parte di Dio.
Del resto, l’incontro con Dio attraverso la natura è elemento ben presente nella religione cattolica. Papa Francesco, prima ancora dell’enciclica Laudato si’ in un discorso alla veglia di Pentecoste del 2013 ha detto che anche se siamo convinti di essere alla ricerca di Dio egli ci sta già aspettando, egli è primo, e può essere primo, aggiungo, perché la natura, che è la sua manifestazione, precede la comparsa dell’umano. Nelle sue parole egli ricorda, inoltre, che per i profeti israeliti che Dio era come il fiore del mandorlo, il primo fiore della primavera.
Nella sua pittura non c’è, però, nulla di romantico, non ci sono spazi immensi, distese di ulivi, panorami. Tutto è invece in primo piano, quasi iperrealista anche se per lei le foto sono esclusivamente degli appunti e la quadratura del foglio una consuetudine senza alcuna intenzione di ingannare l’osservatore.
Dopo l’esperienza della conversione Paola Marzoli dipinge olivi, tronchi contorti, rami, foglie, frutti, palme, sassi, terra. Gli unici manufatti sono una bicicletta abbandonata nel deserto e poi più volte una seggiolina azzurra di metallo in cui, mi racconta, si imbatte per la prima volta accanto al monastero etiope sul tetto della basilica del Santo Sepolcro e che lei si reca a controllare nei successivi viaggi perché, pur nell’assenza di presenze umane costituisce un forte senso di realtà ma anche la sproporzione tra la nostra capacità di comprendere e il mistero religioso.
Da quando non viaggia più, forse a causa del passare degli anni ma credo anche perché può trovare vicino casa ciò che cerca, Paola Marzoli ha rivolto la sua attenzione alla natura più prossima ma anche meno considerata, più bistrattata, più calpestata, come l’erba, in un ideale collegamento con gli scritti di Pia Pera e la visione del giardino di Gilles Clément. Anche qui la raffigurazione è in primo anzi primissimo piano. L’occhio dell’osservatore potrebbe essere quello di un insetto che vive in mezzo al prato oppure quello di un cane che si muove tra le foglie.
Nonostante di questi tempi l’attenzione dell’opinione pubblica sia concentrata sugli alberi, la Nostra rivolge la sua attenzione al manto erboso al di là del suo ruolo altrettanto importante per l’ambiente perché occuparsi dell’erba vuol dire prendere in considerazione quanto ci è più vicino, metafora del prossimo che ignoriamo e non conosciamo e che pure ha un nome che occorre sforzarsi di imparare. Essa è miscuglio di specie diverse ma tutte necessarie a formare l’insieme, formato da steli, fili, fiori che però rispettano le misteriose geometrie della natura consentendo a ognuno di essi di crescere e vivere, di ricevere sole, disponendosi come le navate e le colonne di una cattedrale.
Abstract
The verses of the American poet Walt Whitman (1819-1892): ” I believe a leaf of grass is no less than the journey-work of the stars “, perfectly describe the meaning of the works of Paola Marzoli (Lecco 1944), presented in the exhibition Every herb has a name, in progress at the Rubin Gallery in Milan, until 27 November. She is an artist who brings together three personalities, those of architect, psychotherapist and painter and who has carried on a long individual research, culminated in the arrival to religion in the early years of this century and of which the paintings on display are a representation.
Impressionante il realismo di queste opere, e la semplicità delle forme naturali ritratte, erba e piccoli fiori di campo.
Penso che l’autrice voglia proprio portarci a guardare la Natura con maggiore considerazione, ritraendo una Natura umile, data per scontata, in cui siamo immersi ma di cui spesso, a torto, non sentiamo di far parte.
Una Natura che abbiamo reso soltanto oggetto delle nostre pratiche, conoscitive e manipolatorie.
Ma la contemplazione della Natura e il sentirsi tutt’uno con essa, con i suoi cicli, possono anche aiutarci ad accettare la fragilità e la caducità della nostra sorte umana.