(Tempo di lettura 4 minuti)
Mi sono imbattuto in François de Nomé (Metz c. 1593 – Napoli 1624) leggendo Decadenza di Michel Onfray. In apertura del volume, il filosofo francese illustra il quadro che apre questo articolo, intitolato Rovine fantastiche con Sant’Agostino e il bambino che riproporrebbe una leggenda riguardante il Santo. Sotto un cielo nero, una città che deve essere stata di grande bellezza, sta rovinando su una spiaggia su cui si è arenata una barca con il suo equipaggio, mentre Sant’Agostino si rivolge a un bambino nudo che sta cercando di svuotare il mare con una conchiglia. A lui che gli spiega che il suo progetto è destinato a fallire, il bambino, che in realtà è un angelo, risponde che lui farà in tempo a travasare tutto il mare prima che il filosofo possa comprendere il mistero della trinità.
Ma chi era François de Nomé? Di lui si sa molto poco e secondo Fausta Garavini, che gli ha dedicato il bel libro Le vite di Monsù Desiderio (il nome a cui è stato spesso associato assieme al pittore Didier Barra), le poche informazioni su questo artista si ricavano dalla dichiarazione di stato libero allegata all’atto di matrimonio con Isabella Croys, figlia del pittore fiammingo Luise Croys, celebrato a Napoli il 13 maggio 1613. Originario di Metz arriva ancora bambino a Roma dove entra nella bottega di Balthasar Lawers italianizzato in Baldassarre Lauri. Dopo alcuni anni, si trasferisce a Napoli entrando nella bottega di Luise Croys, che ereditò alla sua morte, avendone sposato la figlia.
François de Nomé fece parte del folto gruppo di artisti fiamminghi, francesi e spagnoli che si trasferirono in Italia non solo per imparare nelle botteghe di colleghi italiani o ispirarsi ai nostri maestri, ma per mettere a frutto le capacità che possedevano. Roma era la meta preferita perché il papato, il clero e l’aristocrazia garantivano molte commesse. Certo il papato proteggeva e incoraggiava ma costringeva sempre a dei difficili giochi di equilibrio tra fede e ragione soprattutto quei pittori che provenivano dalle terre della Riforma e che spesso vivevano qui da cattolici e da riformati nei loro paesi di origine. Non si deve del resto dimenticare che Giordano Bruno era stato bruciato nel 1600 mentre Tomaso Campanella languì in prigione per 27 anni proprio in quel periodo. Ciò però non impediva alla scienza, anche a Roma e a Napoli di progredire. La prestigiosa Accademia dei Lincei fu fondata nel 1603 per iniziativa di Federico Cesi assieme a Francesco Stelluti, Anastasio De Filiis e l’olandese Giovanni Heckius (italianizzato in “Ecchio”) e ad essa prese parte anche il napoletano Giovanni Battista Della Porta. Il suo stemma, ancora oggi in uso, fu probabilmente realizzato dal tedesco Adam Elsheimer, un pregevole artista anche lui emigrato in Italia.
La difficoltà di attribuire in maniera precisa le opere al nostro artista, ora possibile anche grazie al lavoro svolto dalla storica dell’arte Maria Rosaria Nappi, è conseguenza delle modalità di esecuzione delle commesse nelle botteghe. Esse, anche se non sempre di alto valore, richiedevano però oltre al lavoro del maestro e dei suoi apprendisti anche quello di colleghi già formati, specializzati in scene naturali, figure umane, vedute, paesi e in generale nella cosiddetta pittura di genere. Le opere, quindi, non venivano sempre firmate ma erano attribuite a una bottega.
Il lavoro di François de Nomé risentì probabilmente del contrasto di idee e di visioni politiche, culturali e religiose nella società romana e napoletana. È un artista di vanitas che porta avanti una critica della società del suo tempo caratterizzata dalla realizzazione di edifici religiosi sempre più imponenti come il completamento della facciata della basilica di San Pietro con il progetto del Maderna e il nuovo colonnato del Bernini, a cui si affiancavano però le rovine della città romana o la confusione di Napoli, cosicché tutto sembrava andare verso un nuovo paganesimo. I suoi quadri, anticipatori del surrealismo e cari sembra a André Breton, da un lato mostrano architetture imponenti simili a quelle dei grattacieli di una metropoli ma che dall’altro iniziano a distruggersi, a sfaldarsi e precipitare con attorno piazze vuote e poche presenze umane di piccole dimensioni. Certo spesso a crollare sono statue e figure che potremmo definire pagane ma impossibile non pensare alle grandiosità dei prìncipi cattolici che ruotavano attorno al papato. La sua vanitas non è quella conseguenza del timore religioso, espressa da teschi, clessidre e fiori quanto piuttosto dei simboli religiosi, delle statue, delle chiese, delle colonne e delle torri, della caducità delle realizzazioni umane.
Del resto, nessun credo religioso appare prevalere sugli altri perché sembra ci sia un continuo avvicendarsi di concezioni, di dei, di culti, di riti che vivono gli uni a fianco agli altri. I miti e gli dei egizi: Api, Osiride, il culto del Sole, si fusero con quelli greci ed arrivarono a Roma per essere poi trasportati con le loro legioni e le loro conquiste e dopo l’avvento del Cristianesimo i nuovi templi furono costruiti sfruttando i materiali di quelli precedenti.
Dal punto di vista stilistico, de Nomè viene considerato un tardo manierista per l’ispirazione al Rinascimento o un primo barocco per il preziosismo dei dettagli. Per quanto le atmosfere cupe siano prevalenti, le forme architettoniche, pur se sovradimensionate, si ispirano ai classici rinascimentali e inoltre ci sono anche analogie con alcune opere del periodo. Ad esempio, nella sua opera Matrimonio della Vergine in una cattedrale, la piccola figura in basso a sinistra rappresenta una giovane donna che regge sul capo un’anfora da cui sembra uscire una corona di fiori, mentre nell’altra tiene un cestino di uova. Questa immagine presenta molte analogie con l’ancella che si trova sulla destra del Battesimo di San Giovanni dipinto dal Ghirlandaio centocinquanta anni prima nel ciclo della Cappella Tornabuoni e che entra nell’affresco reggendo un vassoio di frutta sulla testa e una brocca d’acqua nella mano sinistra.
François de Nomé, actuality of a painter of the seventeenth century
I came across François de Nomé (Metz c. 1593 – Naples 1624) reading Decadence by Michel Onfray. He is an artist of vanitas who carries on a critique of the society of his time characterized by the realization of increasingly imposing religious buildings flanked by the ruins of the Roman city or the confusion of Naples, so that everything seemed to go toward a new paganism. His paintings, precursors of surrealism and dear seems to André Breton, on the one hand show impressive architecture similar to those of the skyscrapers of a metropolis but on the other they begin to destroy themselves, to crumble and dash around empty squares and few small human presences.