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Si basa su un gioco di parole il titolo della nuova personale dell’artista francese Bertille Bak (Arras, 1983), in corso a Torino alla Fondazione Merz fino al 22 maggio di quest’anno. Mineur in francese vuole dire minore ma anche minatore e quindi Mineur Mineur si traduce come Minore Minatore, cioè Bambino Minatore e infatti la mostra ci parla del lavoro minorile nelle miniere di cinque paesi: India (carbone), Indonesia (stagno), Tailandia (oro), Bolivia (argento) e Madagascar (Zaffiri). Ma se invece traduciamo il termine semplicemente come minatore, otteniamo Minatore Minatore, a indicare uno di quegli uomini divenuti anziani dopo una vita trascorsa in miniera, perché anche di questi ci parla l’esposizione e infine, la ripetizione dei due termini diventa quasi un’esclamazione, un’invocazione alla figura del minatore di cui si vogliono cantare le gesta o più semplicemente la storia.
La mostra è il riconoscimento che la Fondazione Merz ha conferito a Bertille Bak, per aver vinto nel 2019, il Mario Merz Prize. Dopo aver frequentato Le Fresnoy – Studio National des Arts Contemporaines e la Scuola di Belle Arti di Parigi, è stata allieva nello studio di Christian Boltanski da cui ha appreso l’uso dei vari mezzi espressivi ma anche il valore della memoria e degli oggetti attorno a cui si costruisce.
Bertille Bak unisce nel suo lavoro sociologia, antropologia, etnografia. I soggetti delle sue opere sono comunità minacciate nella loro sopravvivenza e con cui convive per lunghi periodi per ricostruire fatti e momenti della loro esistenza, mettendole in movimento in un percorso di rivolta alternativa e facendone degli attori che raccontano le loro storie a cui è sottesa un’ironia che può attrarre il pubblico. Per sé stessa la Bak riserva il ruolo di direttore d’orchestra di questa umanità che mette in scena dopo aver cercato il confronto e il coinvolgimento diretto con essa, per poi “trasferire nell’arte i sogni, i desideri, le ricchezze, le conoscenze con mezzi diversi, dal disegno al video, con apertura di pensiero, empatia, attenzione sociale senza cadere per questo nell’analisi da documentario”.
Mineur Mineur, come già detto, parla del lavoro minorile nelle miniere, una delle piaghe sociali della nostra epoca che si aggiunge a quella ambientale rappresentata dalla stessa attività estrattiva. Si stima che centinaia di migliaia di bambini e bambine lavorino in impianti, spesso artigianali, per la ricerca di minerali rari e preziosi, perché grazie alle loro piccole dimensioni possono infilarsi in cunicoli molto stretti, con gravi rischi per la vita e la salute, a cui si aggiunge il furto dell’infanzia che viene loro sottratta. Oltre ai casi citati dall’artista si fa ricorso al lavoro infantile nelle miniere di mica, il minerale che dà agli ombretti la loro texture brillante, in India; in quelle d’oro in Burkina Faso; in quelle di coltan e cobalto in Congo. L’ installazione ha un carattere autobiografico perché l’artista è nipote di minatori che cominciavano a lavorare a 13 anni, attingendo all’esperienza dei propri familiari per raccontare un fenomeno diffuso in tutto il mondo.
Lo spazio della Fondazione Merz è stato utilizzato dall’artista per farne un parco giochi con attrazioni che probabilmente i piccoli operai vorrebbero poter frequentare se ne avessero la possibilità. All’ingresso si trova Le berceau du chaos (La culla del caos), una grande giostra di cavalli di legno. Si passa poi a This mine is mine (Questa miniera è mia), sette installazioni su cui è necessario salire per osservare dei sottili neon colorati che riproducono i disegni dei cunicoli di miniere realizzati da bambini di Bolivia e India. Eccoci a Mineur Mineur, cinque schermi su cui scorrono cinque video simultanei che riproducono una giornata tipica di un piccolo minatore, realizzata però in forma fantastica, trasformando il lavoro nell’esperienza del gioco che, da bambini, dovrebbero fare. Nelle miniere e nelle gallerie, i piccoli non sono ripresi mentre lavorano ma come se, vestiti quasi a festa, stessero visitando quei cunicoli in cui si calano o scivolano dall’interno delle loro case, fino alla sera, quando tutte le baracche si richiudono su sé stesse e i bambini tornano a casa. Nel video successivo, Bleus de travail (tuta da lavoro), la metafora del lavoro in miniera, come in una favola di Esopo, è raccontata attraverso galline che depongono uova che vengono messe sotto lampade riscaldanti per la cova. Una volta nati, i pulcini colorati, attraverso un nastro, cadono in un imbuto e da lì lanciati su fili della luce dove restano sotto il controllo di aquile bianche che stazionano sui loro trespoli protette da un ombrellone. Si scende poi nel seminterrato dove si trova l’ultimo video e anche il più lungo, Tu redeviendras poussière (Tu ritornerai polvere), con cui la Bak torna nel villaggio dei suoi nonni operai in miniera. Qui un coro di minatori, in abito da concerto, canta avendo sulle spalle un sacco d’aria da cui aspirano mediante un imbuto. Alla manica sinistra una fascia con una percentuale che indica il tasso di invalidità dovuto a silicosi. La polvere è presente in tutta la vita di questi lavoratori, non solo siamo polvere ma la polvere è dentro il loro corpo, tanto che quando si sottopongono, durante la visita medica, alla prova da sforzo, dai loro polmoni esce polvere di carbone e le lapidi del cimitero del villaggio dichiarano che si tratta di minatori che avevano trascorso tutta la loro esistenza nei pozzi minerari.
Una mostra da vedere assolutamente perché Bertille Bak ha la capacità di trattare un tema drammatico senza ricorrere all’esposizione della povertà, delle malattie che mineranno la loro vita, del rischio di morte che incombe, ma facendoci invece entrare nella testa dei bambini, nei loro desideri, di come userebbero i cunicoli se fossero liberi di giocare, così come gli anziani minatori cantano con quel buffo respiratore sulle spalle. Si resta colpiti dalla ricchezza e dall’ampiezza dei mezzi espressivi che la Bak ha impiegato, creando uno spettacolo in cui ci si può immergere per conoscere il dramma di chi non può vivere la propria infanzia.
Mineur Mineur, the mining children of Bertille Bak
The title of the new exhibition of the French artist Bertille Bak (Arras, 1983), winner of the 2019 Mario Merz Prize, held in Turin at the Fondazione Merz until 22 May this year, is based on a play on words. Mineur in French means minor but also miner and therefore Mineur Mineur translates as Minor Miner, i.e. Child Miner and in fact the exhibition tells us about child labor in the mines of five countries: India (coal), Indonesia (tin), Thailand (gold), Bolivia (silver) and Madagascar (Sapphires).