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Quest’anno la Giornata degli Oceani, ricorrente l’8 giugno, si è svolta in concomitanza con la Biennale di Venezia e la Design Week di Milano ed è stata celebrata sia in queste manifestazioni sia in alcuni altri eventi collaterali. Al tempo stesso essa è stata l’occasione per fare il punto sull’oceano e il mare, che qui intendo come sinonimi, come luogo artistico e anche sullo spazio che essi hanno nella trattazione artistica ambientale. Pur essendo deputati alla produzione di ossigeno e di risorse alimentari essi continuano ad essere per noi umani luoghi inospitali, in cui non possiamo vivere e in cui non prevediamo di farlo nei prossimi decenni, mentre stiamo sviluppando il nostro viaggio su Marte, e che anzi sono divenuti minaccianti a causa del rischio dell’innalzamento del loro livello. D’altro canto, l’oceano, come dice la curatrice e storica dell’arte Chus Martinez (1972), è un luogo che racchiude storia e cultura e quindi abilitato ad essere oggetto artistico da vari punti di vista.
Analizzando i lavori presentati in questa occasione, che in alcuni casi risalivano ad anno precedenti e quelli apparsi nel corso di eventi degli ultimi anni sembra di poter individuare quattro differenti visioni delle distese d’acqua del globo: 1) l’oceano come museo; 2) l’oceano come luogo della fantasia: 3) l’oceano come luogo di riscatto politico-sociale; 4) l’oceano come urgenza ambientale.
L’oceano come museo significa ammirazione per la bellezza della vita marina e per i suoi esseri e anche desiderio di conoscenza scientifica per quello che accade nei mari. L’8 giugno si è aperta al Jeu de Paume di Parigi, la mostra Jean Painlevé. Les pieds dans l’eau. Jean Painlevé (1902-1989), specializzatosi in biologia si dedicò all’osservazione e alla ripresa dell’ambiente marino utilizzando i nuovi strumenti fotografici e cinematografici con uno stile che mutuato dai suoi amici surrealisti, assieme a colonne sonore classiche o jazz e da un commento parlato dello stesso Painlevé rende questi documentari, visibili adesso su You tube, assolutamente attuali e godibili. L’hippocampe, ou cheval marin, in cui mostra il ciclo riproduttivo di queste creature e il parto di un individuo maschio e La Pieuvre che fuggita da un tavolo d’anatomia riacquista la sua libertà, ottennero un grande successo e sono ancora oggi attuali. Sulla stessa lunghezza d’onda di Painlevé, anche se di molto successivo, può essere considerato il film Il mio amico in fondo al mare del 2020 in cui il regista sudafricano e co-fondatore del Sea Change Project Craig Foster (1968) racconta il rapporto sviluppato nel corso di un anno di immersioni con un polpo che vive in una foresta di alghe.
L’oceano come luogo della fantasia raccoglie un’ampia gamma di contributi artistici sviluppati con tecniche diverse. A giugno è apparso il Louis Vuitton Travel Book dedicato al Mar Mediterraneo illustrato dalla disegnatrice francese Aurore de la Morinerie (1962) che ha scelto come soggetto il Calypso Deep, il luogo più profondo (5267 m.) del Mediterraneo, situato nel Mar Ionio, al largo della Grecia.
Alla Biennale di Venezia di quest’anno il regista Wu_Tsang (1982) ha presentato all’Arsenale il lungometraggio Of Whales, in cui l’oceano è un luogo onirico e psichedelico generato mediante tecnologie di realtà estesa, simbolo dell’ignoto. Di balene si era occupata anche l’artista italiana Nina Carini che nel 2021 aveva presentato Hoquetus, un’installazione sonora in cui aveva trasmesso come mezzo di conoscenza dell’ambiente marino inabitabile per noi umani, i segnali sonori emessi da cetacei.
Nel corso della Design Week svoltasi a Milano dal 6 al 12 giugno scorso, il visual designer Paolo Buroni (1954) ha creato all’Aquario della città un’esperienza immersiva di un ambiente acquatico. Per venire ad un mezzo più tradizionale il pittore Francesco Santosuosso aveva presentato a maggio la sua opera Submariner, idealizzazione di un fondale marino. Al passaggio dalla fantasia a metodi scientifici nella rappresentazione dei fondali marini è dedicato invece il bellissimo volume Bathygrafica di Emanuele Garbin apparso nel 2018. Per ultimo impossibile non ricordare la serie televisiva Sponge Bob creata dal biologo marino e disegnatore Stephen Hillenburg.
L’oceano come luogo di riscatto politico e sociale è il tema delle due mostre presentate a Venezia in contemporanea con la Biennale d’Arte dalla fondazione TBA21-Academy nell’ambito del programma The soul expanding ocean, frutto delle commissioni affidate all’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape e all’artista portoghese Diana Policarpo, curate da Chus Martinez e con cui si sperimentano nuove forme di contatto con la realtà del mare. Le due artiste danno voce e corpo all’oceano e alle storie che custodisce, storie di colonialismo e di schiavismo e di sfruttamento di territori, per Bopape ricostruite attraverso un viaggio dalle isole Salomone alle piantagioni del Mississippi e poi alla Giamaica per poi fare ritorno in Sudafrica, accompagnato dalla voce che racconta le forze e gli elementi invisibili che regolano il rapporto con il mare.
Il viaggio di Policarpo inizia invece con una ricerca alle Isole Selvagge (Ilhas Selvagens), nell’Oceano Atlantico settentrionale dove in grandi blocchi di pietra dell’isola sono collocati degli schermi che riproducono l’attività di alghe e microrganismi ripresi con speciali lenti tecnologiche che esprimono il ruolo della scienza intrappolata in rapporti di potere.
In questo ambito di ricerca credo vada considerato anche il lavoro dell’artista Binta Diaw (1995) che proprio all’inizio della pandemia aveva presentato a Milano l’opera Chorus of Soil in cui la pianta di una nave adibita al trasporto di schiavi era stata riprodotta mediante strisce di terra in cui erano stati deposti dei semi di melone, simbolo di riscatto che germogliavano nel corso dell’installazione.
L’oceano come urgenza ambientale raccoglie un gruppo di artisti, con forti conoscenze scientifiche e forte impegno politico, che erano stati presentati nell’ambito della mostra Critical Zone al ZKM di Karlsruhe dal maggio 2020 al gennaio 2022 con la curatela di Bruno Latour e Peter Weibel, in cui si dava molto spazio al tema dell’oceano. Dell’austriaca Petra Maitz (1962), era presente l’opera Lady Musgrave Reef (2007), una barriera corallina costruita interamente all’uncinetto, realizzata attraverso il lavoro di molte aiutanti che riproducevano il processo che aveva portato alla formazione del corallo attraverso uno sforzo cooperativo di lavoro umano.
Altri artisti presenti erano: Peter Fend (1950) fondatore della Ocean Earth Construction and Development Corporation; Juergen Claus (1935) autore di To the Oceans With Imagination con cui metteva in guardia dai conflitti che avrebbero potuto sorgere tra i diversi paesi costieri per lo sfruttamento delle energie rinnovabili in mare ma anche per lo sfruttamento delle risorse minerarie poste sotto il livello del mare al di là dei confini dello stato e se le decisioni riguardanti queste ricerche potessero essere nelle mani dei paesi costieri; Armin Linke (1966) con il film Prospecting Ocean valutava gli effetti che la corsa ai minerali preziosi posti in fondo al mare potrebbe avere sull’equilibrio del pianeta; Sonia Levy con For the love of corals, 2018 ongoing, indagava a partire dall’esperienza dell’Horniman Museum and Gardens of London sul ruolo dei Musei di Storia Naturale di poter intervenire sul ciclo vitale dei coralli e sulla conservazione oltre che sulla loro esposizione. Quest’artista ha prodotto successivamente altri importanti ricerche come Creatures of the lines.
Nei giorni della Design Week alla Triennale è stata allestita The inventory of life, opera composta da quattro parti: 50 Seas, State of the world, Live/Leave e How Deep is Time del designer francese Mathieu Lehanneur che nei suoi lavori sfida la tradizione distinzione tra design, scienza e arte e che è difficilmente incasellabile nella classificazione che ho proposto. Qui voglio occuparmi solo di 50 Seas per la sua attinenza al tema di cui sto scrivendo. Essa è formata da una serie di 50 sculture rotonde in ceramica smaltata, che riproducono 50 diversi distese d’acqua con le infinite variazioni e gradazioni di blu e verde dei mari e degli oceani del nostro pianeta, individuate attraverso riprese satellitari appositamente commissionate. I piatti che riproducono la superficie ondosa di un mare sono tutti uguali ed è solo il colore a differenziarli, ciononostante la sintesi che esse propongono è potente perché ogni piatto è in grado di esprimere il concetto di mare e il loro insieme forma la superficie d’acqua del mondo, facendoci apprezzare la meravigliosa differenza di ognuno di loro perché, per contro, il termine generico con cui lo individuiamo fa perdere la loro specificità. Come dice Lehanneur, se gli esquimesi hanno 50 vocaboli per indicare la neve, noi se vogliamo comprendere il mare, dobbiamo rispettare la loro differenza dal blu al verde opale e dal nero al quasi grigio nero, dal Mar Caspio alla Baia di Hudson, dal Mar della Cina al Golfo del Messico.
Per Lehanneur e gli altri artisti è la bellezza delle acque la principale arma per arginare il degrado dei mari e i rischi connessi ai cambiamenti climatici, non le distese di rifiuti o di alghe dovute all’eutrofizzazione. Il loro messaggio si rivolge alla nostra parte più intima e profonda, al mito delle acque, all’ambiente in cui si è sviluppata la vita, compresa quella di ognuno di noi.
Four views of the ocean and the 50 seas by Mathieu Lehanneur.
This year’s Ocean Day, recurring on June 8th, was held in conjunction with the Venice Biennale and the Milan Design Week and was celebrated both in these events and in some other collateral events becoming an opportunity to take stock of the ocean and the sea as an artistic place and also the space that they have in the environmental artistic treatment. The message of Lehanneur and the other artists is addressed to our most intimate and profound part, to the myth of the waters, to the environment in which life has developed, including that of each of us.