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L’artista senegalese-italiana Binta Diaw (1995) presenta a Milano, fino al 6 dicembre, alla Galleria Prometeo di Ida Pisani, la mostra La plage noir, una nuova opera in cui sviluppa i temi della libertà e dell’emancipazione in un contesto post-coloniale, già toccati in precedenti esposizioni come Chorus of soil del 2019 e Dïà s p o r a del 2021. Nell’installazione impiega materiali e mezzi espressivi che rappresentano ormai una sua costante: acqua, terra, semi, piante come simboli di rete, rifugio, vita, libertà, connessi idealmente mediante fili annodati a mo’ di trecce, raffigurazione storica e antropologica della condizione delle popolazioni, in particolare femminili, sottoposte al dominio delle potenze coloniali, a cui si uniscono immagini del proprio corpo fotografato in modo da renderlo simile ad un paesaggio naturale, come nella serie Paysages Corporelles series del 2019.
In Chorus of soil, presentata sempre a Milano, subito prima dello scoppio della pandemia, Diaw aveva ricreato sul pavimento della galleria Abbondio la pianta di una nave negriera mediante piccoli cumuli di terra in cui erano stati piantati semi di melone che poi avevano iniziato a germogliare. In Dïà s p o r a invece, grandi trecce di fili sintetici che indicavano delle possibili vie di fuga dalla schiavitù e che, storicamente, talvolta, come in un codice segreto, erano rappresentate sui capi delle donne schiave, erano sospesi sopra il pavimento e si incrociavano sopra piccoli mucchietti di terra in cui c’erano piantine di riso. In entrambi i casi, i vegetali simboleggiavano i semi che a volte queste fuggitive nascondevano tra i propri capelli non sottoposti a perquisizione.
Le comunità marrones o meglio cimarrones, sono un riferimento continuo del lavoro di Binta Diaw. Esse indicavano in un primo tempo gli schiavi africani (uomini e donne) che nelle colonie dell’impero spagnolo, si “davano alla macchia” creando comunità indipendenti e libere che nascoste nelle foreste attaccavano gli schiavisti, arrecando loro danni anche rilevanti. La richiesta di libertà che questi schiavi esprimevano è un elemento fondante della poetica della nostra artista. La condizione delle popolazioni nere non è raccontabile se non partendo proprio dalla schiavitù e dalla lotta per la libertà e dai luoghi in cui esse si realizzavano: il mare, i campi delle coltivazioni, le foreste e le paludi in cui si nascondevano, i semi che portavano con loro ma anche le acconciature dei capelli che esprimevano il luogo di origine.
La plage noir rappresenta un aggiornamento/approfondimento delle tematiche qui accennate. Ci sono ancora la terra, il suolo della propria origine culturale e le trecce, indicatrici delle tradizioni femminili e anche dei percorsi compiuti ma la protagonista vegetale questa volta è rappresentata dalle foreste di mangrovie o meglio foreste a mangrovie, le formazioni vegetali costituite da più specie che si diffondono nelle zone litorali delle coste marine e che in alcuni casi sono fornite di radici che sollevano il tronco dal suolo, continuando però a fornire il materiale nutritivo. Le fitte ramificazioni delle mangrovie sono la rappresentazione delle foreste che accoglievano i marrones, di chi fugge da situazioni inospitali, della libertà cercata che però non può essere una realizzazione individuale ma ha bisogno della relazione perché la lezione che sembra venire da loro è che la libertà va cercata assieme. Come le mangrovie che con le loro radici si spostano e muovono il tronco, gli esseri umani, le masse schiave in cerca di libertà, una condizione non solo più nera, devono continuamente cercare radici anche se sono in movimento, stabilire una “collettività d’alleanza” per trovare un nuovo destino.
Nella galleria la mostra è articolata su due livelli. Al piano terra piccole installazioni realizzate con terra e vasche di metallo riempite di acqua, su cui si alzano le radici realizzate con fili sintetici. Da qui si scende al piano inferiore, a cui si accede con una scala che immette in un’ampia sala con pavimento e pareti grigie, con un grande specchio sulla parete opposta. Nella stanza, sopra una larga zona di terreno, scarsamente illuminata da luci che potrebbero far pensare a quelle degli inseguitori di chi fugge nel buio della notte, troneggia la mangrovia che, grazie all’altezza della sala, si erge in tutta la sua imponenza. Le sue radici si allungano in tutte e quattro le direzioni possibili in cerca dei principi nutritivi ma anche delle vie di fuga che la comunità che sta cercando rifugio può trovare nella vegetazione. Scena grande e tragica al contempo, più che nelle precedenti opere della Diaw, grazie all’atmosfera buia che è stata creata e che purtroppo simboleggia i momenti in cui le tragedie causate da fenomeni naturali, politici e sociali, appaiono ancora più drammatiche.
Per quanto non sia possibile fare una valutazione compiuta sul posto occupato dalla Diaw nel quadro dell’arte africana e italiana, due brevi considerazioni ci sembrano necessarie. La prima riguarda il ruolo della natura e la profonda differenza tra la sua visione e come essa sia percepita nella rappresentazione artistica occidentale, da luogo dell’anima e dello spirito, da proteggere e conservare per il nostro benessere, a luogo di lavoro, di fuga, di tragedia, di paura, in cui nascondersi per sottrarsi a una minaccia e a un pericolo. La seconda riguarda l’uso del colore. Rispetto ad altri artisti africani presentati in Italia che fanno un uso forte dei colori legato alla rappresentazione del corpo africano e alla nostra iconografia del loro abbigliamento, la Diaw ha fatto una scelta radicale legata alle sue tematiche, impiegando soprattutto il nero e il grigio e limitando i colori più accesi solo all’elaborazione delle foto del corpo.
Data la giovane età della Diaw sarà importante vedere come si evolverà la sua ricerca. Finora certamente ha dimostrato di essere seria e rigorosa nel perseguire un discorso coerente intorno alle tematiche della propria origine con un bagaglio di segni proprio ma le direzioni che intraprenderà in futuro saranno certamente importanti.
In the mangrove forest of Binta Diaw to regain freedom
The Senegalese-Italian artist Binta Diaw (1995) presents in Milan, until December 6, at the Prometheus Gallery of Ida Pisani, the exhibition La plage noir, a new work in which he develops the themes of freedom and emancipation in a post-colonial contest already been involved in exhibitions such as Chorus of soil in 2019 and Dïà s p or r a in 2021. In the installation uses materials and expressive means that now represent a constant: water, earth, seeds, plants as symbols of network, refuge, life, freedom, ideally connected by wires knotted like braids, historical and anthropological representation of the condition of the populations, especially women, subjected to the domination of the colonial powers, to which are joined images of their body photographed in order to make it similar to a natural landscape, as in the 2019 Paysages Corporelles series.