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Ho incontrato Sara Montani (Milano, 1951) nel suo studio a dicembre, poco prima di Natale, dopo averla conosciuta ad ottobre a Milano Scultura, dove aveva esposto degli abiti irrigiditi nella resina o che avevano lasciato la loro impronta sul plexiglas, in modo da fornire a questi indumenti storicità e una durata nel tempo al di là della loro caducità. Il luogo in cui lavora è la rappresentazione di una lunga carriera, pieno di opere e materiali disposti con ordine. Poiché Sara Montani è un’artista che oltre ad aver lavorato molto si è anche raccontata, con una capacità di autoanalisi non indifferente, nel suo libro d’artista Vivere l’arte pubblicato da Silvana, è possibile cogliere dal suo racconto quelle che sono alcune tracce interpretative della sua attività.
L’arte concettuale della Montani procede da una rappresentazione più astratta ad una più realistica arricchita del suo vissuto prima di bambina e poi di giovane, di donna, di insegnante, di madre e oggi di nonna, “che si è concretizzata in una riorganizzazione archeologica e antropologica, fatta con oggetti-reperti, da cui trarre a volte opere materiche, altre incisioni, stampe monoprint e monotipi o ancora sculture o installazioni” che, volendo coglierne quella che è l’essenza esperienziale del suo agire, ne fa anche un esempio di gender art femminile. Questo non perché lei abbia trattato esclusivamente la tematica femminile o femminista, in particolare legata all’abbigliamento, ma perché lei, come notato da Elena Pontiggia, ha portato avanti la sua ricerca e impiegato le varie tecniche con délicatesse, aggiungendo a queste anche la poesia, il racconto, la collaborazione con altri artisti, poeti, letterati e quindi integrando l’immagine con la parola.
Non casuale, del resto, è la citazione a fianco alle sue opere e come fonte di ispirazione di una serie di queste, della poesia di Edoardo Sanguineti (1930 – 2010) Ballata delle donne, di cui credo la citazione di una strofa possa contribuire ad illuminare il lavoro della Montani: “femmina penso, se penso a una gioia: pensarci il maschio, ci penso la noia”.
Nata negli anni ’50, la Montani non poteva dare per scontata la sua volontà di dedicarsi all’arte anche se la sua propensione si è manifestata molto presto seppure in forme insolite, quando a quattro anni impiega una mezza mela per disegnare un grande ghirigoro sulle pareti appena imbiancate della casa di famiglia. Successivamente, terminate le scuole medie, di fronte al parere negativo della madre di poter frequentare il liceo artistico Brera, è solo il giudizio dell’artista Francesco De Rocchi (1902-1978), da cui il padre la porta, forse con l’intenzione di scoraggiarla e che invece si rivela un suo alleato seppur in cambio della promessa di studiare e di essere sempre promossa. Ed è poi sempre la madre che durante la visita a Brera di fronte agli ambienti bui (ancora adesso lo sono) in cui delle coppiette stazionavano abbracciate o fumando, ribadisce il suo parere decisamente negativo ed è solo il trasferimento della scuola in piazza 25 Aprile sempre a Milano, che sdogana la sua decisione. Eppure, al di là dell’atteggiamento negativo della madre e proprio da quest’ultima, probabilmente, che eredita un’indole artistica, l’attenzione ai dettagli, la capacità di creare oggetti artistici utilizzando materiali domestici inconsueti e anche piccoli disegni. Sarà infatti il ricordo delle lettere della mamma ricevute in colonia, all’interno di buste più piccole di quelle delle sue amiche, contenenti un piccolo libretto realizzato piegando più volte un foglio a quadretti e cucendo poi le pagine con un filo da ricamo, in cui poi inseriva foglie, piccoli giocattoli, pezzi di stoffa, ritagli colorati di abiti e piccoli disegni, che resterà indelebile e certamente nutrirà la sua esperienza artistica successiva.
Oltre ad attribuire alla memoria un ruolo importante nella sua ispirazione la Montani fa della conservazione dei ricordi, del passato, della storia, un suo impegno sociale, “privilegiando soprattutto affetti e oggetti-anche indumenti o trame di tessuti – che sanno imprigionare l’esistenza passata, qualcosa di invisibile di chi li ha posseduti e vissuti.” Gli abiti, dalle fasce ai vestitini dell’infanzia, dalla biancheria intima alle sottovesti, dagli abbigliamenti ospedalieri fino alle camicie di forza degli istituti di cura sono una presenza fondamentale nell’arte della Montani perché l’abito è espressione di una cultura, di un’oppressione, ma anche copertura del dolore, manifestazione di gioia, qualcosa che è memoria e che porta con sé tratti di un tempo ben preciso. Ed è così che nascono opere come Camicia di forza (2002), La strozzina (2002), Straccio di donna (2017), il Vestito della festa (2019).
Il suo operare è del resto un esempio di come nasce un’opera d’arte che spesso si manifesta soltanto attraverso il fare, in un modo simile forse alla creazione poetica perché “il soggetto a cui lavorare, arriva spontaneamente, facendosi strada nel silenzio, piano piano fino a quando assume i connotati di una ricerca più ampia, impossibile da trascurare”. Del resto la sua arte sembra originarsi da un nucleo comune, fatto di memoria, che spesso emerge dal ritrovamento di oggetti, abiti, appunti, foglietti, filastrocche, a cui poi “la molteplicità delle tecniche, delle poetiche e delle tecniche espressive, dalla pittura alla scultura, dalle installazioni ai libri d’artista, fino alla grafica, impiegando i materiali e supporti più diversi”, riescono a dare corpo e fisicità, in una continua e inguaribile sperimentazione che elimina qualsiasi possibile ripetizione al punto che, mi racconta, trovandosi nella necessità di inviare ad una mostra un’opera già venduta tentò di replicarla, senza poterla fare uguale. In questo quadro i tanti libri d’artista sono forse le opere in cui trova la sua più grande libertà.
Non è però possibile concludere questo breve scritto su Sara Montani, senza accennare alla sua attività di educatrice. Quando dal 2000 al 2009 per l’Università Cattolica di Milano organizzò con l’Associazione Culturale Roberto Boccafogli – la cui presidente era Eugenia Pelanda – attività laboratoriali di incisione calcografica e stampa al torchio ai Martinitt di Milano, si rese conto che la lingua parlata era inutile, perché loro l’italiano non erano in grado di comprenderlo. Fu solo con l’arte che riuscì a stabilire tra loro un linguaggio comune.
Life and Art for Sara Montani
Sara Montani’s art seems to originate from a common core, made of memory, which often emerges from the discovery of objects, clothes, notes, nursery rhymes, to which then “the multiplicity of techniques, poetics and expressive techniques, from painting to sculpture, from installations to artist books, to graphics, using the most diverse materials and media”, they manage to give body and physicality, in a continuous and unlimited experimentation that eliminates any possible repetition.
Bravissima artista molto innovativa
Molte grazie Enea!
Il giorno 11 marzo 2024 alle ore 17 Al Museo della Permanente presento il mio libro Vivere l’arte, con Elena Pontiggia e Luca Cavallini.
Buon tutto.
Sara