Bovisa o del nessun luogo – Appunti di periferia


(Tempo di lettura 6 minuti)
Marco Merati – Il Parco della Goccia – Bovisa Milano

Per quasi un secolo questa zona di Milano ha rappresentato uno dei poli produttivi più importanti d’Italia. Alla fine dell’800, la tranquilla campagna lombarda a nord della città ricca di cascine, fontanili, ville e coltivazioni di gelsi, si trasforma in uno dei più vivaci ed innovativi comparti industriali del Paese, generando progresso e flussi migratori, diventando un motore occupazionale per diverse generazioni.

L’industria chimica italiana nacque in Bovisa nel 1892 con la realizzazione del primo grande impianto di acido solforico della Candiani. Sorsero negli anni successivi molti altri stabilimenti. I vantaggi erano evidenti: Bovisa era sulla direttrice ferroviaria che congiungeva Milano con le aree industriali del nord e con l’Europa centrale.

Fu l’arrivo de L’Union de Gaz, nel 1905, uno degli impianti più imponenti in Europa per la produzione e la distribuzione del gas, che cambiò definitivamente l’aspetto di questo luogo: i nuovi fabbricati occupano gli spazi agricoli, le cascine ed i campi coltivati sono soppiantati ed affiancati dai capannoni e dalle ciminiere delle grandi industrie.

Accanto a questi giganti anche molte altre attività produttive di dimensioni minori si stabilirono in Bovisa. Nel 1907 la Fratelli Branca Distillerie trasferì qui la lavorazione del famoso Fernet, nel 1924 Zaini scelse Bovisa per la propria produzione di cioccolato e, nella prima metà del secolo scorso, solo per citarne alcune, la Montecatini, la Face Standard, Broggi, Sirio, la Carlo Erba, la Ceretti & Tanfani, la Mapei, la Smeriglio, l’Industria Chimica Lombarda di Enrico Mattei.

Un altro aspetto molto interessante della storia industriale della zona è la presenza di altri tipi di fabbriche, legate allo spettacolo, che fecero di Bovisa la prima cinecittà italiana. Qui sorgevano alcuni studi che si confondevano con i capannoni delle altre industrie, come ad esempio la “Fabbrica della Scala”, i laboratori dove venivano realizzate le scenografie che andavano in scena nel palcoscenico più noto al mondo ed anche il primo stabilimento cinematografico italiano: la Armenia Films

Negli anni ‘60 vengono realizzati i quartieri di Quarto Oggiaro e Bovisasca, che nati sotto la forte pressione immigratoria, diventano dei veri e propri quartieri dormitorio. La piccola “Manchester italiana” stava vivendo il suo periodo più fecondo e complicato, fatto di lavoro e progresso, ma anche di inquinamento, di lotte operaie, di diritti del lavoro, di immigrazione, di rivendicazioni sindacali, di questioni sociali.

Sarà però la dismissione delle “Officine del Gas”, l’area conosciuta oggi come “La Goccia” a modificare drasticamente la vita economica, sociale e culturale della Bovisa. Il gasometro diventerà l’elemento simbolo dell’industrializzazione massiccia dell’area che nella seconda metà del ‘900 subisce un duro colpo: le fabbriche vengono dismesse una dopo l’altra e le industrie tendono ad uscire dalle città causando un cambiamento in negativo per la zona che è protagonista di un lento ma inarrestabile processo di abbandono e smantellamento, testimoniato oggi dalle “cicatrici” di archeologia industriale che costellano il quartiere.

Il paesaggio industriale e popolare di Bovisa, i suoi abitanti e i suoi lavoratori, le sue fabbriche, i gasometri e le case a corte, hanno rappresentato una fonte di grande ispirazione per artisti di tutte le discipline. Dallo scrittore Giovanni Testori, a Luchino Visconti, che in questa zona girò una parte di “Rocco e i suoi fratelli” da Ermanno Olmi, che vi ambientò il suo romanzo “Ragazzo della Bovisa” al pittore Mario Sironi, alla poetica visionaria di John Hejduk, al regista teatrale Luca Ronconi, fino alle fotografie di Francesco Radino e Gabriele Basilico, che ritrasse quelle fabbriche come simboli di cultura del lavoro

Le stesse che ora appaiono come luoghi senza nome, capannoni silenziosi, cancelli chiusi sul vuoto e muri di cinta innalzati sul nulla.

Nella chiesa della Bovisa, a lato dell’altare maggiore, è quasi nascosto un affresco sacro, dove alle spalle di una Madonna in preghiera si riconoscono le ciminiere delle vecchie fabbriche della zona. Simbolo di un legame inscindibile tra la sacralità e la cultura del lavoro.

In passato è stata città fabbrica, teatro del neorealismo, palcoscenico di lotte operaie, è stata quartiere di spaccio, ha visto integrarsi la nuova immigrazione ed ora è un polo universitario di livello europeo.

Un angolo di Milano che offre sorprendenti contrasti urbanistici, un paesaggio cittadino unico, in continua trasformazione. Un territorio sospeso tra memoria e riscatto, in bilico tra passato e futuro, dove il tempo sembra scorrere in modo circolare. Un luogo costellato di non luoghi, anzi di “nessun luogo”.

Il nessun luogo in contrapposizione ai non luoghi di Marc Augè che definisce i non luoghi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici, come i centri commerciali, gli aeroporti, le stazioni di servizio o le sale d’aspetto.

Il nessun luogo è la trasformazione di un luogo, invece identitario e storico, in un luogo senza apparente significato e senza più simboli o codifiche per poterlo identificare e rimandano ai pensieri e alle visioni di Gilles Clement, al Terzo paesaggio, ad un paesaggio indeciso, un frammento del giardino che fu, ai margini abbandonati dall’uomo e che spesso raccolgono identità e diversità non più riconosciute come ricchezza, a progetti sospesi o in attesa di una destinazione.

Il profondo, ma lentissimo, processo di recupero edilizio di questi ampi insediamenti produttivi, iniziato con l’apertura del Passante ferroviario e l’arrivo del Politecnico che hanno permesso di aprire alla città un quartiere storicamente isolato dalle sue stesse infrastrutture

Negli ultimi trent’anni questa zona ha subito le infauste decisioni di varie giunte comunali, che hanno cancellato un patrimonio culturale, sociale e architettonico unico nel suo genere. Nei luoghi dove si è fatta la storia ora resta il vuoto. Con il vuoto si è cancellata la memoria e la memoria è storia ed è cultura.

Il progetto vuole individuare e descrivere un ecosistema urbano partendo proprio dai luoghi che sono stati abbandonati.

Nasce con l’idea di cristallizzare le trasformazioni urbane di un quartiere milanese, attraverso una ricerca fotografica di luoghi e simboli, che consumiamo quotidianamente, senza però coglierne l’essenza sociale e il valore storico, partendo dall’osservare luoghi che non esistono più, ma che anni fa erano simboli di lavoro, di vita, cultura e socialità e che sono andati perduti. Fabbriche che potevano raccontare molto, che andavano preservate e recuperate, diventati vuoti urbani, territori dispersi, che in modo silenzioso e senza che la città se ne occupasse, si sono trasformati.

Un viaggio nella quotidianità, in un labirinto di magazzini, recinzioni, grandiosi manufatti di archeologia industriale che confinano con moderne architetture e capannoni silenziosi, si mescolano, sovente alla rinfusa, nuove centralità emergenti e vecchie centralità declinate, laboratori dell’innovazione e progetti industriali, infrastrutture moderne e scali ferroviari dismessi, quartieri residenziali e sopravvivenze isolate di edilizia popolare. Un tessuto urbano dove molto spesso la forma non corrisponde più al contenuto. Si sono fatte le università dentro alle fabbriche, si abita nei laboratori, si progetta nei magazzini, si espone nei depositi industriali.

Una narrazione visuale per riscoprire il passato e osservare un presente eterogeneo e composito, dove negli ultimi anni, studi di creativi, designer, gallerie d’arte e laboratori stanno portando nuova linfa vitale al quartiere, ma dove, nello stesso momento su queste aree abbandonate si sono posati gli occhi e le mani della nuova speculazione edilizia.

Questo lavoro non propone nessuna soluzione. Il linguaggio fotografico resta un linguaggio per porre delle domande. Vuole raccontare ed informare: raccontare la storia di una brulicante periferia che in poco più di un secolo è passata dall’essere un punto focale della vita e della produzione cittadina, all’essere un ammasso di capannoni e fabbricati vuoti e anonimi, dimenticati nel feroce processo di modernizzazione che negli anni ’80 e ’90 non volgeva certo lo sguardo indietro.

Cercava anzi di distaccarsi il più possibile da certe realtà: periferia come degrado, luogo pericoloso da non frequentare. Oggi invece sappiamo che ognuno di questi edifici, e persino i vuoti lasciati da quelli demoliti, possono in realtà raccontare un pezzo di storia importante, proprio come un reperto di archeologia antica. Le loro mura consumate ci parlano di qualcosa che non possiamo più vedere ma che ci ha condotto fino ai giorni nostri. In questo, la fotografia, ha un ruolo fondamentale, poiché è in grado di fermare il tempo.

“In fondo in ogni visitazione dei luoghi portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo” (Luigi Ghirri – 1989)

Abstract

BOVISA OR NO PLACE -NOTES ON THE PERIPHERY

Bovisa is a corner of Milan that offers surprising urban contrasts, a unique city landscape, constantly changing. A territory suspended between memory and redemption, poised between past and future, where time seems to flow in a circular way. A place dotted with no places, indeed no place.

No place as opposed to the non-places of Marc Augè that defines non-places all those spaces that have the prerogative of not being identitarian, relational or historical, such as shopping centers, airports, gas stations or waiting rooms.

No place is the transformation of a place, instead of identity and history, in a place with no apparent meaning and no more symbols or codes to identify it and refers to the thoughts and visions of Gilles Clement, the Third landscape, an undecided landscape, a fragment of the garden that was, on the margins abandoned by man and that often collect identity and diversity no longer recognized as wealth, to projects suspended or waiting for a destination.


2 pensieri riguardo “Bovisa o del nessun luogo – Appunti di periferia”

  1. Caro Marco, grazie del suo bell’articolo che mi ha riportato al periodo in cui, credo fosse il 1982, abitai in Bovisa per circa un anno. La casa era in via Candiani, vicinissima alla Ceretti e Tanfani dove poi sarebbero state trasferite alcune facoltà del Politecnico e non lontana dai binari dove poi sarebbe stata realizzata la fermata del passante Bovisa. Anche se il periodo trascorso lì fu abbastanza breve ricordo di averne subito il fascino. Allora, non era così facile raggiungere il quartiere; l’unico mezzo dal centro era il tram 8 che faceva capolinea in piazzale Bausan. Qualche anno dopo quando mi ero trasferito a vivere in un’altra periferia, a Gorla, ebbi di nuovo a che fare con la Bovisa perché divenni direttore di una piccola società di ristorazione che si occupava, tra l’altro del servizio di ristorazione per i lavoratori AEM che lavoravano, anche di notte nei gasometri, che ancora adesso sono associati all’immagine del quartiere anche se non più funzionanti. Purtroppo, allora non ebbi mai occasione di visitarli e così non mi resi conto di quanto invece essi, assieme agli edifici prima della Union de Gaz e poi dell’AEM, fossero importanti nella storia della città. La mia vita è rimasta legata a quel pezzo di città perché negli anni Novanta abitai per un paio d’anni in Mac Mahon vicino alla stazione di Villapizzone. Recentemente aiutando un’amica nella gestione di un piccolo spazio espositivo sito in via Bandinelli mi è capitato di tornarci spesso impiegando uno dei treni che fermano a Bovisa e poi muovendomi a piedi e di conoscere così le rappresentazioni che alcuni artisti come Sironi e Tettamanti avevano fatto di questo quartiere e di visitare finalmente il Parco della Goccia.
    Le sue fotografie mi hanno finalmente dato la possibilità di vedere e visitare quei luoghi che una permanenza troppo breve mi avevano impedito di conoscere. Ora comprendo che la definizione della Bovisa come nessun luogo possa apparire appropriata. Le trasformazioni urbanistiche possono essere impietose e come dice lei “nei luoghi in cui si è fatta la storia ora resta il vuoto” e quindi l’assenza di memoria e cultura, ma la memoria di ciò che era e il passaggio da uno stato all’altro, ad “un tessuto urbano dove molto spesso la forma non corrisponde più al contenuto” ma in cui nonostante tutto è difficile cancellare le tracce del passato, resta compito dell’arte e in particolare della fotografia perché è in grado di mostrarci ciò che era e di fermare il tempo.
    A questo proposito, un bell’articolo di Carlo Arturo Quintavalle sulla Lettura di Domenica 18 agosto ripropone i contenuti della mostra Viaggio in Italia inaugurata a Bari quarant’anni fa introdotta da un suo saggio. Citando i titoli dei capitoli del catalogo in cui erano raggruppate le immagini: A perdita d’occhio, Lungomare, Margini, Del Luogo, Capolinea, Centrocittà, Sulla soglia, Nessuno in particolare, Si chiude al tramonto, L’O di Giotto; Quintavalle afferma che essi “suggeriscono la rimozione di ogni luogo simbolico….L’idea è quella di proporre una spazialità diversa della fotografia, una sua dimensione narrativa che la ponga sullo stesso piano di un racconto.” Citando poi il suo saggio introduttivo alla mostra Quintavalle così chiudeva: ”Niente più universi dipinti, niente più spazi rappresentati senza realtà alle spalle, puntiamo sui vuoti, sulle assenze, puntiamo sul non-esistente, in apparenza, nelle periferie, puntiamo sul bordo, sul margine, sul limite che sono le campagne e le strutture della nostra realtà che sono, almeno nella rappresentazione fotografica emarginate”. Credo che quel programma che pure si concentrava sui luoghi del vivere contemporaneo, sia parte del suo lavoro.

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