Pietro Ruffo (Roma-1978) mi confida che le carte geografiche provocano in noi la sensazione di poter abbracciare e contemplare uno spazio e un tempo enormi senza soffrire, portandoci ad uno stato divino, cioè senza nessuna delle preoccupazioni legate alla situazione della natura o della società a cui noi invece soggiacciamo nella nostra vita, con la comodità di uno studioso e non l’angoscia di chi ha vissuto delle esperienze terrene. Forse è per questo che lui le ha scelte come mezzo di espressione della sua attività artistica, concentrata attorno alla rappresentazione dei grandi drammi che l’umanità si trova ad affrontare. Il tema principale con cui si confronta fin dall’inizio della sua carriera è quello della libertà, su cui ha a lungo riflettuto, adottando il punto di vista del filosofo Isaiah Berlin ( Riga-1909- Oxford-1997). Artista dotato di grandi capacità di artigiano e di disegnatore, sa creare bellezza ed ha al suo attivo anche una lunga collaborazione con la Maison Dior dove è stato chiamato dalla sua direttrice creativa Maria Grazia Chiuri. Il 14 marzo la Galleria Lorcan O’Neill ha inaugurato a Roma la sua personale, Il giardino planetario.
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Mettere in scena i fiori: la “bottega” Bollettini a Milano
I fiori si possono dipingere o raccontare, come abbiamo scritto più volte su questa rivista (cfr. i nostri contributi sui pittori Mario De’ Fiori, Pep Marchegiani, Margherita Leoni, Marco Eusepi e sul romanzo “Cambiare l’acqua ai fiori” della scrittrice Valérie Perrin) ma si possono anche mettere in scena come accade nella bottega (uso volutamente questo termine che spiegherò dopo) della famiglia Bollettini (marito, moglie e figlia) a Milano, unita da un comune amore per l’arte, la pittura ma anche la musica. Nel loro spazio i fiori e le piante formano un’ambientazione suggestiva e unica con le pareti dei locali e con gli elementi di arredo, creando un luogo esperienziale in cui l’unione dei vari elementi è così ben amalgamato da rendere molto difficile l’identificazione degli artisti e degli stili che lo hanno ispirato.
Continua a leggereNella foresta a mangrovie di Binta Diaw per ritrovare la libertà
L’artista senegalese-italiana Binta Diaw (1995) presenta a Milano, fino al 6 dicembre, alla Galleria Prometeo di Ida Pisani, la mostra La plage noir, una nuova opera in cui sviluppa i temi della libertà e dell’emancipazione in un contesto post-coloniale, già toccati in precedenti esposizioni come Chorus of soil del 2019 e Dïà s p o r a del 2021. Nell’installazione impiega materiali e mezzi espressivi che rappresentano ormai una sua costante: acqua, terra, semi, piante come simboli di rete, rifugio, vita, libertà, connessi idealmente mediante fili annodati a mo’ di trecce, raffigurazione storica e antropologica della condizione delle popolazioni, in particolare femminili, sottoposte al dominio delle potenze coloniali, a cui si uniscono immagini del proprio corpo fotografato in modo da renderlo simile ad un paesaggio naturale, come nella serie Paysages Corporelles series del 2019.
Continua a leggereAntropocentrico e vegetale nella fotografia di Giovanni Tavano
Giovanni Tavano (Pescara-1954), presenta fino al 3 settembre, nella bella cornice del Museo Laboratorio ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo (PE), Fotografie dal 1977 al 2020, una selezione del suo lavoro storico in b/n sviluppato tra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Ottanta e di quello inedito a colori a cui si è dedicato dal 2012 al 2020, su cui mi concentrerò perché attinente al tema di questo blog. Per le tecniche, gli argomenti e i linguaggi impiegati, la mostra è un riassunto anche delle problematiche della fotografia che sono state dibattute in un Talk on photograpy svoltosi l’11 agosto nella stessa sede espositiva a cui hanno partecipato tra gli altri, oltre all’autore e al curatore Enzo De Leonibus, anche i critici Antonio Zimarino e Ivan D’Alberto, i docenti Marco Brandizzi e Franco Fiorillo e i fotografi Paolo Dell’Elce e Jacopo Pasqui.
Continua a leggereI Giardini di Marco Eusepi in mostra a Noto
Noto (SR), capitale del Barocco divenuta Patrimonio dell’Unesco, è stata definita dallo storico dell’arte Cesare Brandi (1906-1988) Giardino di Pietra, per la ricchezza dei decori dei propri palazzi. Appare pertanto non casuale che proprio qui, nella splendida cornice del piano nobile del palazzo Trigona di Cannicarao, riaperto per l’occasione dopo oltre quarant’anni di chiusura, sia stata presentata e resterà visibile fino al 15 settembre, a completamento della vegetazione lapidea della città, la mostra Gardens di Marco Eusepi (Anzio 1991), che accoglie opere recenti o realizzate appositamente, i cui motivi vegetali si stagliano sulle pareti spoglie del palazzo e che, trovandomi nella località siciliana, ho avuto la fortuna di visitare.
Continua a leggereLa natura agricola di Hilario Isola (intervista)
Hilario Isola (Torino, 1976) è uno dei pochi artisti italiani contemporanei a occuparsi esplicitamente del mondo agricolo, aspetto che mi sta particolarmente a cuore, perché ciò che chiamiamo paesaggio o natura spesso coincide con la realtà antropizzata dell’agricoltura, soggetto che però viene tenuto ai margini del campo di osservazione dell’arte. Isola al contrario, che unisce alla sua attività di artista quello di piccolo imprenditore agricolo, mette l’agricoltura al centro della sua indagine, unendo “la dimensione organica e viva della natura alla dimensione del sapere artigianale dell’uomo”, che certamente, aggiungo, rimane ancora presente nell’ambito agricolo ma anche ai miti che sono legati alla coltivazione della terra. La sua ricerca si fa forte di una ricchezza di mezzi espressivi che presuppongono una profonda conoscenza della stessa e l’impiego di un’ampia gamma di materiali: attrezzature e cascami dell’attività agricola (reti antigrandine, vinacce) e processi (fermentazione, stagionatura) oltre a insetti e prodotti finali, coinvolgendo non solo la vista ma tutti gli altri sensi. Il suo ultimo lavoro è Rurale, presentato recentemente a Roma, alla Galleria Valentina Bonomo. Sul suo sito web è possibile rendersi conto dell’evoluzione del suo progetto.
Continua a leggereL’Ecce Folium di Annalisa Di Meo
L’arte ambientale ha tra i suoi filoni la considerazione dei vari elementi che compongono il mondo vegetale: boschi, alberi, piante e fiori e alcuni degli artisti di cui ci siamo finora occupati ne hanno evidenziato i vari aspetti, con tecniche e finalità differenti. Marzia Migliora si è interessata di piante alimentari; Cesare Viel, Eugenio Tibaldi e Quayola hanno descritto orti e giardini; Giuseppe Penone e Margherita Galli hanno rappresentato interi alberi o tronchi; Pep Marchegiani e Margherita Leoni hanno dipinto fiori; Paola Marzoli si è concentrata sui fili d’erba; Silvia Infranco si è ispirata a splendidi erbari. Annalisa Di Meo (Brescia 1977), attualmente in mostra allo spazio Manifiesto Blanco fino al 18 giugno, ci invita invece guardare le foglie, a concentrarci su questa parte delle piante, finora piuttosto trascurata, con un titolo che è un imperativo: Ecce Folium.
Continua a leggereEnrico Minguzzi alla sfida della “natura morta”
Alla Nuova Galleria Morone di Milano, Enrico Minguzzi (Cotignola-1981) con la mostra Fluoritura, riporta in auge il genere artistico della natura morta, in voga in Europa nel Sei-Settecento e che ha avuto come ultimo grande rappresentante italiano Giorgio Morandi. Lo fa in forme nuove, anche se classicheggianti: nuovi sono gli oggetti “naturali” che dispone al centro della scena su alzatine o vasi appoggiati su un piano, nuovo il colore predominante, un grigio in varie tonalità, nuovo anche il legame tra l’oggetto dipinto e la natura da cui proviene che troviamo raffigurata in alcuni quadri esposti.
Continua a leggereDal rigore del paesaggio al sublime della natura, il percorso di Paola Marzoli
I versi del poeta americano Walt Whitman (1819-1892): “Credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle”, descrivono perfettamente il senso delle opere di Paola Marzoli (Lecco 1944), presentate nella mostra Ogni erba ha un nome, in corso alla Galleria Rubin di Milano, fino al 27 novembre. Si tratta di un’artista che assomma in sé tre personalità, quella di architetto, di psicoterapeuta e di pittrice e che ha portato avanti una lunga ricerca individuale, culminata nell’approdo alla religione nei primi anni di questo secolo e di cui i quadri esposti sono una raffigurazione.
Continua a leggereIl paesaggio originario di Paolo Dell’Elce
L’immagine in testata è uno scatto del fotografo Paolo Dell’Elce di cui potete leggere la biografia cliccando sulla foto. A commento della stessa trovate un capitolo del suo scritto “La porta nel paesaggio” , risalente agli anni Novanta, che ritengo sia molto utile come introduzione al suo lavoro (FDF).
Nella mia esperienza artistica ritengo che sia stato fondamentale il luogo in cui sono venuto al mondo.
Sono nato nel terzo giorno di primavera, esattamente al sorgere del sole, con la luce; in una casa modesta in prossimità della spiaggia e ai margini di un’estesa pineta litoranea, all’epoca ancora piuttosto selvaggia. Ho respirato l’aria salmastra del mare e la resina dei pini per tutta la mia infanzia. I ricordi più lontani mi riportano l’immagine scura di una culla nel controluce di una finestra, un riflesso, un bagliore sul pavimento e poi tutto ritorna nel buio.
La mia memoria risale a quella percezione, si muove verso il presente da quel punto. Nasce dalla percezione della luce e del buio. Successivamente ricordo la pineta di notte, un’immensa massa scura interrotta talvolta da piccole luci che mio nonno diceva che fossero gli occhi dei lupi. Poi il mare d’inverno, che vedevo dalla mia finestra, grigio uniforme.
Scrive Attilio Bertolucci: – Le gaggie della mia fanciullezza / dalle fresche foglie che suonano in bocca… / Si cammina per il Cinghio asciutto, / qualche ramo più lungo ci accarezza (…). – È la rievocazione di un particolare paesaggio: il paesaggio originario, dove ogni suo elemento acquista una valenza fondamentale nella sensibilità del futuro poeta. La gaggia è l’elemento di questo paesaggio che ritroveremo, immancabile, in tante sue liriche.
Rievocare nel ricordo questo paesaggio, significa rievocare la nascita, quel momento lontano in cui si è vissuti “come in un caldo sogno”.
Nel mio lavoro fotografico ho rievocato i luoghi della mia nascita, identificando gli elementi del mio Paesaggio originario. Tutta la mia esperienza estetica sembra ricondurmi a certi soggetti del paesaggio che si manifestano in un forte controluce come segno o massa scura; chiome di pini, tronchi d’albero che si stagliano su uno sfondo luminoso uniforme, Sylvia Plath scrive: – Neri sono gli alberi della memoria… –.
Spesso mi chiedono perché fotografo sempre gli alberi. Mi è sempre difficile rispondere con parole pronte e vorrei parlare a lungo della grande bellezza di un albero, della sua presenza; la sua astanza. L’albero sta e si pensa. La sua vita apparentemente immobile mi assorbe e mi trasmette la percezione di un ritmo differente da tutta la realtà circostante.
L’albero diventa un’isola; forse una porta, il custode vivente del Tempo. L’immagine nera degli alberi nel paesaggio mi partecipa il senso di una solitudine cosmica; la sofferenza, il dolore del mondo, ma anche un’intima sensazione della bellezza assoluta e ineffabile. La nera purezza di queste forme ha strutturato il mio spazio spirituale donandomi il conforto di una consapevolezza esistenziale, come quando di notte, camminando soli per una strada deserta, nel silenzio, improvvisamente ci accorgiamo del suono dei nostri passi; quel suono ci rivela a noi stessi e da quel momento ci accompagnerà nel nostro cammino.
Il Paesaggio originario è il luogo primordiale, ma anche immagine primordiale, è lo spazio nascente che si origina con l’uomo, ma che serba il sapore di una “nostalgia senza oggetto” e il sentimento numinoso di una preesistenza.