(Tempo di lettura 4 minuti)
Sophie Ko (Tbilisi–1981), vive e lavora a Milano, dove si era trasferita per frequentare il biennio di specializzazione all’Accademia di Brera, dopo aver conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Tiblisi. Avevo visto la sua ultima mostra, “Atti di resistenza” alla Galleria Building, a febbraio di quest’anno, che mi era piaciuta molto per i materiali e i colori impiegati: polveri di tonalità rinascimentale, oro, ali di farfalle, anche se non ne avevo compreso appieno il significato. Per descrivere brevemente le sue opere, senza rendere loro giustizia, posso dire che esse consistono, nella maggior parte dei casi, in grandi teche che contengono ceneri o pigmenti colorati, a volte sovrapposti, che nel momento in cui vengono issate in posizione verticale, subiscono l’azione della forza di gravità che produce effetti fisici: crepe, rotture, cedimenti e cromatici, in continuo cambiamento. L’intento di Sophie Ko non è però solo estetico; le sue opere sono la rappresentazione di un obiettivo e di un pensiero complessi: dare forma visibile al tempo e quindi al moto incessante della vita e della morte.
In principio Sophie Ko impiegava ceneri di libri o di raffigurazioni artistiche. In una fase di riflessione sulla sua attività, era rimasta colpita dalla lettura del saggio “L’Immagine brucia”, scritto dallo storico dell’arte Georges Didi-Huberman[1]. Secondo H. l’immagine è ciò che sopravvive, ciò che resta di un incendio, dei tanti roghi in cui sono finiti libri e biblioteche. Il tempo non può essere rappresentato dalle immagini ma dalla loro fine. La cenere, in quanto tale, ne è raffigurazione, è ciò che resta, ciò che si diventa ma Sophie Ko, sottoponendo le ceneri all’azione della forza di gravità e quindi al movimento, le fa divenire misura del tempo, consentendo a ciò che è rimasto, di cambiare ancora.
Le ceneri hanno però una tonalità di colore che va dal grigio scuro al chiaro e quindi offrono una potenzialità espressiva limitata. L’incontro casuale con un barattolo di pigmento trovato nel proprio studio le dà la possibilità di rappresentare meglio la propria esigenza. Grazie alla forza di gravità, i pigmenti non solo assumono continuamente forme e tonalità diverse ma, disposti in strati, si combinano in modo che quelli disposti per primi sul fondo, appaiano man mano che gli ultimi si distaccano, a differenza della pittura in cui ciò che vediamo è l’ultima pennellata e i primi strati di colore restano nascosti. Ai pigmenti si mescolano le ali di farfalle, simbolo di cambiamento, attraverso la metamorfosi che dà loro vita, e ancora simbolo di bellezza ma anche della sua caducità, della vanitas e quindi dell’effetto del tempo. Ma se lo scorrere del tempo è simbolo di fragilità, i pigmenti ottenuti dalla macinazione di pietre, sono simbolo della Terra, simbolo di vita, “la cosa più solida su cui poggiamo”.
Accanto al conflitto tra vita e morte ce n’è un altro, quello tra tempo e forma. L’atto artistico cerca di fissare nell’opera un istante e di sottrarlo al divenire. Per Sophie Ko invece, essa è creata dal tempo. Dopo il soffio di vita che l’artista le ha dato con il suo atto creativo, essa è abbandonata a sé stessa e all’azione della forza di gravità, come l’essere umano dopo il peccato mortale è abbandonato al libero arbitrio. L’artista resta anonimo, dietro le quinte, come nelle icone ortodosse che fanno parte della tradizione culturale di Sophie Ko.
Ma quale tipo di tempo, tra le possibili definizioni di questo concetto, rappresentano le opere di Sophie Ko? Io credo che esse siano un’efficace rappresentazione del tempo geologico della Terra. La discesa lenta e continua delle polveri e i loro improvvisi crolli rappresentano i milioni di anni in cui ci sembra non sia accaduto nulla, tanto quel numero è enorme rispetto alla nostra vita, ma in cui piccoli, infiniti cambiamenti si sono prodotti e accumulati nell’evoluzione umana e delle specie viventi fino a quando, un evento imprevisto produce la scomparsa di esseri animali e vegetali, annunciando la fine di un’era e l’inizio di un’altra. Assieme esse sono rappresentazione anche dei cambiamenti climatici, della “Slow violence” che infliggiamo alla Terra, troppo piccoli per essere notati attimo per attimo, come quelli che a occhio nudo non potremmo osservare giorno per giorno nelle opere di Sophie Ko fino a quando, superato un punto di accumulo, con un disastro, ci informano dell’ennesima crisi ambientale.
Ma possiamo anche chiederci, infine, di quale concetto di tempo abbiamo bisogno oggi? Forse del “tempo profondo” di cui parla Robert McFarlane nel suo libro “Underland” secondo cui esso è: “il vertiginoso periodo di storia terrestre che ci separa dal momento attuale…tenuto dalle pietre, dai ghiacci, dalle stalattiti, dai sedimenti dei fondali marini, dalla deriva delle placche tettoniche”? Oppure del “tempo delle cattedrali”, quello che va al di là dell’oggi e del domani e pensa alle generazioni future e che possiamo riassumere con la domanda dell’immunologo Jonas Salk: “Ci stiamo comportando da buoni antenati?” Sophie Ko con il suo lavoro ci invita a riflettere su questo concetto di spaventosa attualità.
[1] Georges Didi-Huberman, L’immagine brucia, in Teorie dell’immagine, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Cortina Milano, 2009
Abstract
Sophie Ko (Tbilisi – 1981), lives and works in Milan, where she moved to attend the two-year postgraduate degree at the Brera Academy, after graduating from the Tbilisi Academy of Fine Arts. Her works are the representation of a complex goal and thought: to give visible form to time and therefore to the incessant motion of life and death. To represent them, she uses ashes and colored pigments, which, under the action of gravity, take on ever-changing features and colors. But his work also speaks to us of different visions of time: the geological one and that of climate change, that of the subsoil and that of cathedrals. Sophie Ko with her work invites us to reflect on this concept of frightening topicality.