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A Bergamo, nascosto in pieno centro, esiste un piccolo luogo del cuore, il parco Caprotti, creato a fine ‘800 dall’imprenditore Carlo Caprotti (1846-1926), un importante industriale tessile, che lo pose a completamento della sua abitazione sita in via Tasso. Ispirato ai criteri romantici, fu progettato in modo da creare scorci di paesaggio intesi a suggestionare e a creare stati d’animo nel frequentatore, secondo le linee magistralmente illustrate da Michael Jakob nei suoi libri. All’ingresso da via Verdi è collocato un piccolo Padiglione del Tè, realizzato nel 1891, finemente decorato con fregi ispirati al corteggiamento amoroso. Qui l’associazione Contemporary Locus, che ha come suo obiettivo la riscoperta di angoli della città, ha chiesto all’artista Sophie Ko (Tbilisi–1981) di effettuare un intervento interpretando con la sua sensibilità lo spazio a disposizione e il suo rapporto con il parco.
Sophie Ko, di cui ci siamo occupati tre anni fa, vive e lavora a Milano, dove si era trasferita per frequentare il biennio di specializzazione all’Accademia di Brera, dopo aver conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Tiblisi. La sua opera, che sta conoscendo un crescente successo, è incentrata attorno al rapporto fra tempo e forma. La sua ultima produzione è visibile alla galleria Renata Fabbri di Milano fino al 18 novembre, nella mostra Prima che la notte cada. Qui, accanto alle sue opere a base di pigmenti colorati, ceneri, ali di farfalla, collocati all’interno di teche poligonali e che assumono configurazioni diverse a causa delle fratture e dei cedimenti che si provocano con il passare del tempo, ha collocato alcune delle piccole sculture in bronzo, barche che nella fantasia infantile possono essere costruite infilando delle foglie nella corteccia di un tronco per poi farle galleggiare sull’acqua, realizzate nel corso della sua residenza bergamasca e che, a mio avviso, rappresentano una evoluzione della sua riflessione concettuale.
Nell’intervento di Bergamo Sophie Ko ha intessuto una fitta trama di relazioni tra il Padiglione del Tè così come si è presentato ai suoi occhi e il parco, il laghetto, la vegetazione e la fauna, con un processo di raggruppamento percettivo, facendone il riflesso degli elementi esterni e consolidandoli poi nelle sue sculture. Nel corso del tempo il piccolo padiglione aveva subito sia una ristrutturazione che ne aveva ridotto l’altezza, sia una trasformazione d’uso divenendo deposito di arredi che non avevano potuto trovare una diversa collocazione, apparendo all’artista come uno spazio “ferito, sconfitto, ostile”. Le era apparso subito chiaro che non avrebbe voluto farne una nuova galleria, ripulendola delle superfetazioni che si erano accumulate nel tempo, lasciandolo invece come punto di partenza di qualcosa di nuovo, accostandolo alle promesse che in quel parco, probabilmente, delle coppie si erano scambiate nel corso della loro vita. Il contrasto tra lo stato di fatto del padiglione e la cura estrema che è invece stata applicata alla tenuta del parco era accentuato dalla presenza di un cigno che lo abita. Le è tornata così alla mente la poesia di Baudelaire dedicata a Victor Hugo, Il cigno, che si chiude con una grande invocazione agli sconfitti: da Andromaca moglie di Ettore andata in sposa a Pirro, figlio di Achille, alla “negra, dimagrita e tisica” che cerca il panorama della sua terra che non potrà mai più vedere, agli orfanelli magri, “ai marinai scordati sopra un’isola, ai prigionieri, ai vinti! … voi e ad altri, ad altri ancora”.
Mentre Il poeta francese accostava la condizione dell’elegante volatile, che cammina goffo tra le strade di Parigi che non gli appartengono più, alla condizione di chi si muove in un paesaggio che sta per essere trasformato, cancellando il passato in nome della modernità, Sophie Ko ha tratto spunto dalla poesia per un inno ai vinti di oggi, che sono certamente coloro i quali devono lasciare i propri spazi ma anche ognuno di noi in una fase della propria vita. Anche i cigni sono migranti e all’artista-cigno sta il compito di estrarre la bellezza dove non pensiamo ci sia, rovesciare la visione, dare voce a chi non può.
Dopo il Covid, nonostante le aspettative di un periodo migliore, siamo entrati in una fase tragica e instabile con guerre che possono avere esiti incredibili, modificando la nostra percezione del mondo. Per questo, credo, di fronte alla confusione degli oggetti collocati nel padiglione, la nostra ha subito pensato alla scultura, diversa però da quella finora realizzata cangiante in base al tempo, ma a qualcosa di stabile e ha voluto inserire degli elementi che rappresentassero dei punti fermi, dei piccoli soprammobili che però contrariamente a quanto si verifica con questi oggetti, spesso effimeri, avessero un peso, “degli artefatti che dessero importanza sia al gesto che all’oggetto”, ribadendo il contrasto tra distruzione e costruzione, tra emergenza e affermazione, tra partenza e arrivo, tra ignoto e conoscenza. Il parco, le foglie e il laghetto le hanno evocato la forma infantile delle barche, realizzate con corteccia e foglie, partendo da quelle di filodendro, acero, castagno, raccolte sul posto, poi trasformate nelle anime con cui sono state effettuate le fusioni, che sono state realizzate senza calchi e sono quindi uniche. L’allestimento del piccolo padiglione è stato completato con un bassorilievo della invocazione finale della poesia, tracciato in oro, che avrebbe potuto essere realizzato con il neon, che l’artista non esclude di poter usare in futuro e che sarebbe stata ben accostabile all’epoca degli arredi ma che non avrebbe fornito quella luce, simbolo di riscatto.
Impossibile non pensare che queste sculture, in cui la materia si è solidificata ed è destinata a non modificarsi, seppur in una solidità che sa di solitudine e di fragilità – cosa c’è infatti di più fragile di una foglia? – introducano una nuova fase della produzione di Sophie Ko, anche se lei nel corso della chiacchierata che abbiamo avuto, ha voluto smentire questa mia sensazione, non sentendole in contrapposizione con la sua attività precedente perché hanno comunque a che fare con la metamorfosi del tempo e delle forme, nonostante il cambiamento di materiali e colori, tenendo a precisare di non aver plasmato lei gli oggetti ma di essersi limitata a riprodurre delle forme naturali, non impegnando quindi la sua volontà ma soltanto dando peso a un gesto, “senza tradire”.
A dispetto delle loro dimensioni e del loro richiamo vegetale, le piccole sculture possiedono una grande forza simbolica. Disposte in processione sul pavimento del piano inferiore della galleria di Renata Fabbri, appaiono simili alle barche sacre degli antichi egizi incaricate di portare le anime nell’aldilà, invitandoci, come diceva Rilke, a porre attenzione “distratti e occupati quali siamo, a questo nostro passare”.
The bronze boats of Sophie Ko to sail in a restless time
In Bergamo, hidden in the center, there is a small place of the heart, the park Caprotti, created in the late ‘800 by the entrepreneur Carlo Caprotti (1846-1926). At one of the entrances there is a small Tea Pavilion, made in 1891, finely decorated with friezes inspired by loving courtship. Here the association Contemporary Locus, which has as its goal to rediscover corners of the city, asked the artist Sophie Ko (Tbilisi-1981) to carry out his intervention interpreting with his sensitivity the space available and his relationship with the park. The small bronze sculptures, made during the Bergamo residence, represent an evolution of his conceptual reflection on time and form.